La fabbrica dell’infelicità

DI ANTONIO MARTONE

Gli individui del nostro tempo adottano una strategia di promozione di sé stessi, avvalendosi dell’immagine del proprio corpo per attirare l’attenzione e trasmettere messaggi autocelebrativi.

I corpi umani – per esempio sui social – sono rappresentati in modo “idealizzato” per suscitare desiderio o invidia, e mi chiedo sempre di quanta frustrazione c’è bisogno per essere concentrati costantemente sul proprio aspetto esteriore.

Questo modo di fare che ormai caratterizza quotidianamente le nostre vite non è particolarmente originale, poiché, in realtà, si tratta di un calco di qualcosa che precede la realtà dei social. Mi riferisco alla pubblicità.

Essa infatti è un mezzo attraverso il quale vengono promossi prodotti, servizi o idee con l’obiettivo di influenzare, o meglio di “formare”, il comportamento dei consumatori.

Così come il selfista compulsivo sui social, nello stesso modo, anche se in maniera meno innocente, la pubblicità promuove l’idea che l’acquisto di un prodotto o di un servizio possa migliorare l’aspetto fisico o l’immagine di sé.

In questo senso, la pubblicità mette gli uomini in competizione fra loro: non è affatto un caso che vengano impiegati testimonial adatti alla vendita di ciascun prodotto. In realtà, l’uso dei testimonial – presi ovviamente dalla società dello spettacolo – indica e provoca l’imitazione.

Se vuoi essere come lui/lei, devi usare questo prodotto. Se vuoi essere come uno che ha successo, se vuoi essere fra coloro che contano, devi fare come lui/lei: è chiaro che tutto questo si regge su una menzogna clamorosa, moralmente oscena.

L’uomo che si arrangia per campare non diventerà mai come l’attrice di grido o il calciatore famoso ma i pubblicitari sanno che a questo l’uomo medio non pensa: quando scorge un prodotto pubblicizzato dalla sua attrice preferita (e viceversa), si può esser certi che il meccanismo imitativo scatterà inesorabile e foss’anche la merce, come nella gran parte dei casi, vera immondizia, verrà acquistata.

In questo quadro, è chiaro che la pubblicità non fa altro che creare standard irrealistici di bellezza e di corporeità, promuovendo un’immagine distorta e limitante dell’ideale estetico.

Tutto ciò può causare problemi di autostima e di insicurezza nelle persone che non corrispondono agli standard promossi – le quali avvertono il rischio realistico di essere esclusi – ma di questo la visione del mondo fondata sulla pubblicità non si cura: il suo unico interesse è creare infelicità ed emulazione, poiché soltanto l’infelicità e l’emulazione fanno vendere merci.

Immagine tratta da Pixabay

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