La neve nel cuore

DI IDA GRECI

IL vento, quella sera, scuoteva gli alberi del giardino, il cielo terso e limpido preannunciava l’arrivo dell’inverno. In casa un profondo silenzio avvolgeva ogni cosa ed era interrotto, di tanto in tanto, dalla tiepida fiamma di un camino che lasciava spazio ai pensieri più intimi, liberi di navigare nel passato, riportando alla memoria ricordi che pensavamo sopiti, sempre vivi, invece, nel nostro cuore.

Così nasce il racconto di questa storia che appartiene ad un tempo lontano eppure così vicino perché “Nessun tempo è lontano” se lo sentiamo presente nella nostra vita…

Nei vicoli di via Aspromonte, Nenè aspettava il Natale. Il tempo, nel paese, scorreva lento, scandito dalle feste liturgiche della Chiesa: la festa dell’Immacolata, la processione di Santa Lucia; tutti partecipavano alla celebrazione corale della festività, all’accensione del falò nella piazzetta del paese; durante la processione si camminava scalzi per chiedere alla Santa di proteggere gli occhi e la vista.

La sera del 12 dicembre i bambini mettevano, vicino al portone, erba e fieno perché, narrava la leggenda popolare, Santa Lucia passava nelle stradine del paese e lasciava piccoli regali per i bambini buoni.

La mattina ci si alzava presto per andare a cercare i doni, poi si andava alla fiera per comprare gli abeti da decorare. Ci si preparava alla festa religiosa più importante dell’anno: il muschio raccolto nelle giornate di sole, la capanna costruita con paglia e legno, i pastori che si arricchivano ogni anno di un personaggio nuovo.

Si preparavano dolci con miele, frutta secca e mosto. In ogni casa si mescolavano odori e sapori del Natale. Si pregava per tutta la famiglia ma anche per allontanare i giovani dal peccato rappresentato, nell’immaginario collettivo, dal diavolo.

Era una vita semplice e corale quella del paese, tutti conoscevano tutti, molti sparlavano di tutti: le donne sedevano sull’uscio della porta, c’era chi ricamava, chi cuciva, chi si fermava alla “spera di sole “. Gli uomini uscivano, la mattina presto, per il lavoro, il pomeriggio si ritrovavano nelle “bettole” per giocare a carte, bere ed ubriacarsi. Poi tornavano a casa, allegri e brilli, per il frugale pasto serale.

Le mogli, abituate a questo tipo di comportamento, aspettavano i mariti con servizievole pazienza perché “il posto delle mogli era accanto ai mariti”. Era pane quotidiano sopportare comportamenti ed umiliazioni.

Rimanere incinta era il peccato più grave che si potesse immaginare, una grave disgrazia ricadeva sulla famiglia che non aveva altra scelta: cacciare di casa, mandare via la sfortunata, disconoscerla come figlia, allontanarla per sempre dal paese.

Così Nenè andò via dal paese per scontare la sua colpa. Una valigia con poche cose ma con tanta miseria e tanta neve nel cuore, un indirizzo dove trovare ospitalità, il biglietto per un treno. Era da poco passata l’alba, il paese dormiva ancora, quando Nenè venne accompagnata alla stazione da sua sorella Menicuccia; il silenzio accompagnava il loro cammino.

Nessuno osava uscire di casa per paura del giudizio della gente: avrebbero portato, sulle spalle, lo sbaglio commesso da Nenè. Nenè era bella, con le trecce corvine, gli occhi grandi e neri, sognava l’amore, immaginava una vita semplice, ma serena: la guerra era da poco terminata e si viveva come si poteva, ci si accontentava di poco, dividendo tutto quello che si aveva.

Avevano vissuto l’occupazione tedesca, a volte raccontavano le vicende della guerra, della vita da “sfollati” tra le montagne, dei bombardamenti, dei rifugi e delle storie raccontate per demonizzare la paura.

Terminato il conflitto la vita, lentamente, era ripresa: Nenè frequentava la Chiesa, la Casa delle suore, dove si cantava, si pregava: era questa l’unica uscita permessa dalla famiglia.

All’uscita della chiesa, soprattutto la domenica, i ragazzi del paese guardavano le ragazze passare; nel giorno di festa potevano indossare qualcosa di diverso dai soliti abiti sciatti e rammendati: vestiti scambiati tra sorelle, cuciti in casa, scarpe con la suola consumata o risuolata dal ciabattino.

Quella domenica Nenè aveva messo l’abito più bello, la gonna a quadrettoni, la camicetta bianca, i calzettoni neri; le trecce le scendevano lungo il seno che, negli ultimi tempi, le era cresciuto creandole anche un po’ di imbarazzo; desiderava essere ammirata da Nino, un ragazzo del paese, che da tempo la guardava ogni volta che la incontrava.

Nino le aveva detto di fare due passi insieme…poi si erano appartati nel vecchio Cinema del paese. Il mese successivo si accorse di avere un ritardo, non aveva “il marchese”, come veniva chiamato, nel linguaggio popolare, il ciclo mestruale.

Nenè ascoltò la sua condanna, in silenzio. Il padre era furioso, sua moglie piangeva: sapeva già la decisione irremovibile di mandare via Nenè dalla famiglia perché aveva disonorato l’intera famiglia. Immaginava già le chiacchiere della gente che parlava dietro gli usci o in chiesa durante le funzioni.

Il viaggio di Nenè durò circa due ore, una valigia, una piccola sporta per il pranzo. La sorella Menicuccia le aveva detto che sarebbe stata ospitata da un Istituto religioso che accoglieva ragazze che “avevano commesso peccato” e dovevano partorire nel più completo anonimato.

Dopo il parto il bambino o la bambina sarebbe stato dato in adozione.
Nenè iniziò la sua nuova vita, pensava spesso alle sorelle. Sapeva poco di loro, anche la loro vita era stata segnata dal “fatto”: Regina era entrata in convento, non per vocazione, ma per fuggire da una situazione impossibile. Ormai la famiglia era completamente condizionata dalle chiacchiere del paese.

Qualche volta il pensiero andava a Nenè, alla vita che portava in grembo. In casa non si parlava di lei: avevano saputo che aveva partorito un maschio, al quale aveva messo il nome di Giosuele. Nenè non aveva visto, nemmeno un minuto, Giosuele. Non avvertiva emotivamente il distacco da quella creatura, aveva vissuto la gravidanza come una colpa, un peccato da espiare.

Qualche giorno dopo il parto tornò alle occupazioni quotidiane: la mattina andava a servizio presso la famiglia che le era stata assegnata, al rientro continuava il lavoro nell’Istituto.

Fu proprio la famiglia Conti ad introdurre Nenè nella vita di Giuseppe, “lo sciancato”: disabile dalla nascita, aveva subito l’amputazione di una gamba ed aveva bisogno di una persona che lo assistesse nella vita di tutti i giorni.

Giuseppe l’avrebbe portata con sé a Vieste; Nenè aveva accettato perché sapeva di non poter aspirare ad altro. Nel piccolo paese giunsero dopo tante ore di treno: Nenè, seduta vicino a colui che considerava un estraneo, portava con sé solo una piccola borsa, un vestito e tanta neve nel cuore.

La casa di Giuseppe era piccola ed essenziale, lì Nenè avrebbe trascorso il resto della sua vita, non sapeva nemmeno in quale parte dell’Italia si trovasse, aveva sentito parlare del Meridione ma non sapeva localizzare esattamente il luogo dove il treno l‘aveva condotta.

Sapeva solamente che era lontano dal suo paese che si trovava in Ciociaria, in collina. Lei il mare non l’aveva mai visto, a volte sentiva il rumore delle onde impetuose che si infrangevano sulla scogliera mentre pensava alla sua vita.

La sua vita cos’era? Non sentiva attrazione, né desiderio fisico, aveva paura della notte, di dormire accanto a Giuseppe, in quel momento chiudeva gli occhi e sperava che tutto passasse in fretta.

Ma le ore ed i minuti scorrevano lentamente: durante il giorno non aveva nessuno con cui parlare, non poteva uscire, del resto nessuno poteva fidarsi di una ragazza che aveva peccato. Apriva con tristezza le lettere che arrivavano dal suo paese o dal convento. Nenè era dimenticata, riposta in un angolo buio della coscienza.

Per lei il Natale sarebbe stato un giorno uguale a tanti, trascorso nella solitudine. Per cena avrebbe cucinato la zuppa di baccalà che piaceva a Giuseppe.

Intanto pensava al suo passato quando, insieme alle sorelle, aspettava la nascita di Gesù. Ricordava la prima nevicata dell’inverno, quando dormiva abbracciata alle sorelle per cercare un po’ di calore.

Ora dormiva rannicchiata nell’angolo più lontano del letto e guardava Giuseppe con angoscia. La sua bellezza era sfiorita, non si specchiava né aveva cura di sé, sentiva la sua mente stordita e confusa.

Era arrivato ancora Natale quando Menicuccia aprì una lettera, arrivava da Vieste: Giuseppe le informava che Nenè era stata ricoverata in una casa di cura per malati di mente, per problemi di salute.

Passarono molti anni, tra visite, diagnosi e cure che avevano reso Nenè un fantasma che camminava nel mondo. Un giorno d’estate Nenè venne riaccompagnata al suo paese, da dove era partita colpevole ed umiliata, Giuseppe non sapeva che farsene di una persona malata che non assolveva ai suoi doveri.

Così, quel giorno, io ti ho incontrata, una bambina diventata, troppo presto, donna: il tuo sguardo assente, la mente persa nel vuoto, il tuo bisogno di aiuto, la ricerca di uno sguardo affettuoso, di una stretta di mano.

Non ricordavi niente del tuo passato, un passato che io, come donna, ho cercato di conoscere e di comprendere perché esso, anche se non lo vogliamo, è sempre presente nella nostra vita. A volte cerchiamo di allontanarci da esso ma, esso riaffiora nella nostra coscienza; così ho cercato di ricostruire la tua vita, leggendo lettere sbiadite dal tempo, rubando i pensieri delle persone che ti hanno conosciuto, ricordando le espressioni dei volti che parlavano di te o frasi pronunciate ed interrotte a metà.

È stato breve il tuo viaggio in questa vita, infelice ed incompreso da tutti coloro che hanno sempre pensato che la realtà è solo apparenza, che si possono dimenticare gli affetti più importanti per sottrarsi al giudizio della gente.

Anche quest’anno arriverà Natale, metterò sotto l’albero una lettera per te, la dedicherò ai miei figli cercando di insegnare loro l’importanza degli affetti veri per non vivere con “La neve nel cuore”.

 

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