La pelle: intercapedine tra l’io, il se ed il mondo

DI MARINA AGOSTINACCHIO

La rabbina francese Delphine Horvilleur in un incontro-lezione alla XVIII edizione di Torino Spiritualità, dedicata al tema particolare della pelle, ai suoi rimandi significativi e metaforici ha richiamato una pagina di “Nudità e pudore”, un suo saggio di qualche anno addietro, pubblicato in Italia da Qiqajon, la casa editrice della comunità di Bose.

Nella pagina cui mi riferisco si possono leggere le diverse ipotesi dei commentatori ebrei, riguardo alla Genesi, sul tipo di rivestimento che avrebbero avuto Adamo ed Eva all’uscita dall’Eden, dopo la trasgressione al divieto divino di non mangiare il frutto proibito.

Che strana domanda, mi sono detta. Perché tanta preoccupazione e soprattutto chi mai si è posto questo interrogativo.

Leggevo quanto la Horvilleur riferisce su alcuni passaggi dello Zohar, della mistica ebraica; una ipotesi infatti conferirebbe alla pelle il valore di tunica cucita da Dio per Adamo ed Eva.

Quindi la pelle sarebbe stato il rivestimento dato da Dio all’uomo perché si coprisse.

E prima, al tempo del paradiso terrestre, come era l’uomo, la donna, cosa avevano addosso di visibile? ”L’essere umano era luminosamente a-dermico, trasparente a sé stesso e al suo Signore”.

Ecco la risposta della rabbina.
Ora, immaginiamoci questi primi nostri genitori girare sagome luminose, trasparenti, a-dermici.
In un contesto di luce, pari a guizzi di lampi sul mare, scie in movimento sull’acqua, ho immaginato questi due corpi percorrere spazi dove un qui e un lì erano ancora sconosciuti.

Senza orizzonte, senza recinti, senza peso, dove l’ ”absentia” di qualcosa di circoscritto intorno alle forme, il non con sé cui il rimando dell’avverbio senza, li avrebbe portati, questi corpi, ad essere scorporati, appunto trasparenti a sé e al loro creatore.

Ma poi qualcosa andò storto; così ho pensato che la disobbedienza li costrinse a portarsi attorno un contorno solido, pesante, perché per viaggiare oltre l’Eden, l’uomo e la donna avevano bisogno di coprirsi per sopravvivere in una terra che ha ben altre regole climatiche, di gravità, di vita.

La pelle diviene un’intercapedine tra l’io, il sé e il mondo. La pelle è indispensabile per proteggere Adamo ed Eva da ciò che la terra ha di incompatibile con quella felice fusione luminosa dell’Eden.

La pelle, avvolgendo i nostri due vagabondi, crea un limite tra sé e il diverso, la cosa estranea, l’altro.
Da quella nitidezza iniziale, lo stato edenico di creature senza rivestimento, trasparenti l’uno all’altra e al loro creatore, da quell’istante perduta per sempre, ecco i due cacciati dal luogo che li ha visti nascere e passano a uno stato di torbidezza, determinata da ciò che ora li rende visibili e circoscritti.

Ma cerchiamo di vedere nella pelle una risorsa anziché una perdita di sensazioni simbiotiche luminescenti.

Molto interessante a questo proposito è un parallelo di Armando Buonaiuto (giornalista e insegnante di comunicazione sociale) con il neonato.
Lo studioso mi ha guidata a sondare ciò che la parola “pelle” nasconde nelle sue pieghe dai suoi esordi.

Il neonato è inconsapevole del proprio corpo, per una scarsissima percezione dei limiti tra la propria pelle e quella di chi lo avvolge teneramente in un abbraccio e quella di chi lo accarezza.

L’altro, la pelle che sarà l’immagine del diverso da sé, lo guiderà a questa consapevolezza di chi egli è, in altre parole, contribuirà a fargli scoprire la propria identità.

Così come l’immagine della mamma o di chi per lei, allo specchio, guiderà il bambino alla scoperta di sé proprio nelle immagini riflesse.

Imparerà l’alterità “Grazie a quella pelle non sua, che percorrendo amorevolmente i suoi confini estremi glieli avrà rivelati”.

Dal primo stato fusionale che il piccolo vivrà felicemente potrà imparare le coordinate del proprio spazio corporeo sarà in buona parte grazie a quella pelle non sua, che percorrendo amorevolmente i suoi confini estremi glieli avrà rivelati.

Insomma, una costruzione di identità personale che passa attraverso l’inatteso manifestarsi di un’epidermide che ci delimita.

Lo scorticamento a cui è sottoposto da Apollo il sileno Marsia il povero personaggio della mitologia di Ovidio grida: ”perché mi strappi da me stesso?”

Scuoiamento come strappo da sé indica ormai uno stato di millenaria convivenza e cifra incontestabile di ciò che una persona è proprio in grazia del rivestimento che avvolge e che prima di essere riconosciuto necessita dell’altro.

A questo punto potremmo aprire il discorso all’importanza dell’altro come entità che ci apre alla relazione.

Dice ancora Armando Buonaiuto “La pelle avvolge la persona, la incarna, la definisce, la distingue, la mette in relazione con gli altri e con il mondo fuori, perché è lì sulla pelle che la vita viene a incontrarci”.

L’immagine della vita che viene a incontrarci sulla pelle di ciascuno allarga l’orizzonte mentale alla complessità di reti che irradiano da noi all’altro e dall’altro a noi.

Siamo individui comprensibili agli altri in quanto visibili nel nostro essere delimitati, circoscritti, definiti da questo involucro che ha un compito ben oltre lo stato dell’apparenza; essa è rivelatrice di altre profondità, ed è dalla sua riemersione che amiamo, soffriamo, ce la giochiamo nel rapporto con il mondo.

Un’altra riflessione del giornalista riguarda la considerazione della pelle come immagine metaforica.

Dice Buonaiuto che la pelle se “sottile, diviene armatura meno divisiva, e ciò ci permette di renderci partecipi del reale e ci fa più vicini a una mirabile compiutezza, che è trasparenza empatica, relazione sempre esposta al bene quanto al male”.

Inoltre continua dicendo “Più la pelle è spessa – incallita da strati di indifferenza, cinismo, egolatria – più ci si allontana dall’originaria compiutezza dell’essere umano”

Quindi la pelle è maschera della bellezza o della perversione umana. Nel suo presentarsi svela la sua verità.

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