La poesia e la fiera della vanità

DI MARINA AGOSTINACCHIO

 

Negli ultimi anni la poesia appare come una forma di scrittura sempre più inflazionata.

A dire il vero questo genere letterario per la sua diffusione si avvale soprattutto dei social, un contenitore dove si moltiplicano gruppi letterari di ogni tipo.

Personalmente ho voluto affacciarmi ad alcuni di questi per leggere e sondare cosa gli amanti della scrittura poetica intendano per poesia.

Senza avere la presunzione di possedere la verità assoluta, posso comunque dire che oggi la stragrande maggioranza degli scrittori sanno maneggiare le parole in lingua italiana e secondo registri diversi.

Ma a cosa serve scervellarsi e chiedersi cosa sia poesia in un tempo sempre più caotico, relativistico, individualistico?

Andando indietro negli anni, Poesia, per una come me che sin da bambina amava monologare e in solitudine, era la ricerca di un aspetto fonologico della parola; parlavo in modo cadenzato, cercavo una particolare modulazione sonora nell’andamento di un discorso, spesso nato per gioco.

Parlavo a “ritmo”, come diceva la mia maestra. La poesia era un mistero che mi aveva accolta attraverso la parola dettata da un istintivo senso del gioco di suoni e di nonsense; inoltre, l’ascolto dei racconti di mio padre che narrava a noi figlie fiabe, favole e miti mai veramente seguendo canoni conosciuti -secondo cui il racconto segue regole precise e consolidate nel tempo- aveva in me un effetto magico.

No, no. Le narrazioni di mio padre procedevano secondo misteriosi sentieri di metafore. Col tempo capii che per scrivere bisogna sapere leggere in sé per sapere veramente se abbiamo in noi quella combinazione alchimica tra suono, senso, capacità di disporre tutto nella pagina.

Vorrei indugiare brevemente circa la combinazione delle parole sul versante della creazione del testo poetico, con qualche osservazione che nasce dalla mia esperienza.

E’ vero che le figure retoriche, il rispetto delle regole metriche, il riferimento ai campi semantici, lessicali e grammaticali in genere aiutano a disegnare immagini e scenari, in modo tale che il testo nato diventi suono visivo.

Ma la poesia può essere anche altro. Capita, ad esempio, che quando leggo anche testi narrativi, alcune frasi o espressioni linguistiche richiamino la mia attenzione più di altre e inspiegabilmente, così da iniziare un discorso oltre ogni idea precostituita e/o che incredibilmente rimandino a zone interiori che emergono improvvise da spazi di ombra.

E capita, anche che per un istinto inintelligibile, che le parole si combinino proprio leggendo un libro, vedendo la vita scorrere davanti a me, dormendo.

Esse si inanellano e dicono perché altri le raccolgano e si ritrovino. Non occorre che il lettore voglia darsi a tutti i costi una spiegazione di quanto legge, che proceda ad analisi testuali improvvisate o competenti.

Il verso va, viene interiorizzato per qualche strana combinazione. Forse per un incrocio d’anime, di mente e di un sentire provato all’unisono.

Da adulta, un’altra grande occasione di incontro con la poesia fu la conoscenza di Diego Valeri. Avevo nove anni e lui, il grande poeta, venne nella scuola elementare che frequentavo condotto dalla mamma di un’amichetta.

Al dire della maestra della mia stramberia di un narrrare spesso a mo’ di ritmo cantilenato, lui mi appoggiò una mano sulla fronte, quasi un segno di approvazione per quel modo insolito di pormi di fronte alla parola.

Scrivevo su quaderni, fogli sparsi, (abitudine che ancora conservo), cancellavo e riscrivevo, mai contenta perché ben avevo intuito che la parola non potrà mai esprimere fino in fondo quel segreto che è in noi; la parola può avvicinare la mente ai suoi referenti, all’intenzione che sottende la scrittura, ma mai veramente rivelare, mettere a nudo il lampo, lo scatto d’idea antecedenti la stesura della narrazione.

I miei anni universitari mi hanno poi offerto un’altra occasione d’oro. L’ insegnamento di letteratura moderna e contemporanea dell’Università di Padova aveva per maestro, negli anni della mia frequentazione, Silvio Ramat, il poeta fiorentino che aveva ereditato la cattedra proprio di Diego Valeri.

Con lui che trattava corsi monografici sui grandi poeti italiani del 1900 ho appreso come sia indispensabile, per chi senta di essere attratto dalla scrittura in poesia, leggere i testi di poeti, studiarli, capire il come si uniscano i pezzi che compongono un testo poetico, al di là del concetto che si voglia esprimere nello stesso.

Fare coincidere un contenuto a una forma, ecco la differenza; sapere usare le parole per suggerire, e non svelare del tutto, quel segreto che uno scritto poetico contiene, (della poesia come avente un segreto ne parlava Ungaretti già in un’intervista di Ettore Della Giovanna nel 1961), è operazione non semplice.

Diceva Ungaretti che la poesia nasce da un’idea che poi ritorna, che deve essere levigata tra musicalità e concetto; e questo lavoro può in certi momenti essere logorante; a volte ha soluzione immediata, a volte ha una gestazione di mesi. Può nascere in un tram, nel chiuso della propria stanza, o in situazioni di difficoltà, di pericolo…

La poesia è una piena che spinge per un’emersione, dal ventre che l’accoglie e l’ha in gestazione. Spesso mi dicono a cosa serva, a cosa porti la poesia concretamente.

A un niente di tangibile, rispondo, perché è un niente di cui ti colmi, che dai alla luce, niente di finito, di espugnabile, niente in termini di risultato immediato, di produttivo, di commerciabile, di commestibile, di scambiabile.

Le parole del poeta si insinuano nella trama complessa di ogni esistenza, nei suoi pieni e nei suoi silenzi, senza pretese, senza volere dare spiegazioni o soluzioni.

Ma sembra, a ben guardare quello a cui assistiamo oggi, che vada sempre più facendosi strada la convinzione che scrivere poesia sia un modo per certificare risposte a domande pressanti su noi e sul mondo circostante .

Così sulle pagine dei social assistiamo a tutto un pullulare di scrittori-poeti pronti a ricevere i complimenti, a ringraziare le giurie di concorsi cui hanno partecipato e magari vinto, vedendosi assegnare premi in denaro o in targhe in cui vengono incise menzioni particolari ricevute, quali attestazioni delle loro verità esposte in versi.

A volte i “poeti” si ritrovano invitati in salotti letterari, di questi tempi sempre più frequenti da distanza; e in quelle stanze virtuali si assiste a enumerazioni di trionfi letterari personali.

Da anni mi sono allontanata da questa spiacevole modalità di parlare di sé, per cui quando recentemente ho letto su Repubblica del premio Nobel statunitense per la letteratura, Louise Glück, mi sono trovata concorde col suo pensiero.

Essa dichiarava una volontà di silenzio su quanto ruota attorno alla sua scrittura. Mi è tornata così alla mente Mariangela Guarnieri (nata come poeta in teatro, drammaturga e fondatrice insieme a Cesare Ronconi del teatro Valdoca ) che in un’ intervista del 2016 al Teatro Akropolis, a proposito dell’appellativo di poeta, rivoltole, si esprimeva in questi termini: “Dicono che sono poeta, ma è un manto bello pesante da portare”. Potremmo fare tesoro di quanto dicevano i vecchi poeti su cosa dovrebbe essere poesia.

Leggere, leggere, leggere testi di poesia, mi invitava a fare il mio maestro poeta Ramat. Visiva e visionaria, rinforzo il mio pensiero, illuminata anche dalle testimonianze delle due grandi donne scrittrici come quelle citate, su cosa voglia dire essere poeta, su come vivere senza spreco di parole questa specifica forma espressiva e su cosa si intenda per poesia.

Dice ancora splendidamente la Glück che lo scrittore-poeta necessita di un rapporto intimo con il lettore, quale unico destinatario di un colloquio privato a due e aggiungerei colloquio delicato che proprio per questo avviene attraverso un messaggio espresso attraverso un codice cifrato.

Ma quanto difficile, oggi in particolar modo, per parecchi scrittori, (vocabolo che ora uso in senso lato), non sentirsi attratti da un mondo di riflettori in cui si è qualcuno a condizione di svelare la propria immagine per sentirsi riconosciuti da amici, amici degli amici all’ infinito, quasi secondo una svilita tecnica serigrafica e per di più svuotata da un intento provocatorio riferito all’uso che ne faceva Andy Warhol.

E se mai qualcuno dovesse dirci che il modo consueto, oltre che intraprendente, di moltiplicare cultura secondo uno spirito democratico, risiede proprio nel favorire le operazioni di messa in vista di sé, diffidiamo! Difficile per molti sottrarsi a questa fiera delle vanità.

 

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