La pozzanghera e quell’incontro troppo ravvicinato

DI GIOVANNI BOGANI

L’indomani dovevo presentarmi al giornale. Parlare col direttore. La prima volta nella mia vita.

E avevo visto due volte il film da recensire. Un film brutto, che mi aveva messo il nervoso addosso.

Tornavo, verso mezzanotte, in bicicletta, verso casa.

Giravo e rigiravo quel film nelle tasche della mente. E quasi non mi accorsi di quell’auto che, proprio davanti a piazza del Duomo, per poco non mi prendeva in pieno, venendomi addosso a tutta velocità, per imboccare un senso vietato.

Marco Masini non l’aveva ancora scritta, quella canzone, Ma io ne annunciai a voce altissima il titolo. Rivolto ai cinque che stavano in quell’auto.

Vaffanculo.

Avrei dovuto imparare da te l’arte preziosa della prudenza. Tu l’hai coltivata tutta la vita; ti hai sempre coltivato il silenzio e la prudenza. Io urlai vaffanculo, perché potevano ammazzarmi, me e la mia bicicletta blu, che amavo tanto, dipinta insieme a Simone tanti anni prima, con un fiore giallo disegnato sulla canna e la scritta “Giò”. Il mio nome.

Scesero dall’auto, io vidi che erano quattro ragazzi e una ragazza. Ebbi il tempo di pensare “ah, se c’è una ragazza fra loro allora sono tranquilli”, chissà perché lo pensai. L’ultimo fotogramma che vidi fu un uomo, pelato, che veniva dritto verso di me con un pugno. Io avevo le mani sul manubrio della bicicletta, il pugno mi arrivò dritto in faccia, e mi spaccò i quattro incisivi davanti. I due dentoni di sopra, e pezzettini di quelli di sotto.

Mi ritrovai per terra, con i due incisivi caduti in una pozzanghera sotto il marciapiede. Li raccolsi, mentre quelli dell’auto se ne andavano veloci.

Dal bar lì a due metri avevano visto tutto. Uscì una ragazza, mi vide sanguinante dal naso e dalla bocca, senza denti.

Mi dette un fazzoletto, mi dette il braccio, mi portò dentro il bar in cui lavorava. L’uomo al bancone disse “Via! Vai via! Non voglio casini qui nel locale!”.

Ma io non ero il problema, io avevo due denti in mano e due denti in meno nella bocca, e il naso mi sanguinava. Il tipo dietro il bancone uscì, mi prese per un braccio e mi cacciò fuori dal bar. La ragazzina piangeva, per il dispiacere e forse anche per lo spavento, o per vedermi così.

Io non ho mai smesso di odiare quel bar, in piazza San Giovanni, per tutta la vita. Ma adesso sono cambiati mille gestori, e chissà dov’è finito quel pezzo di merda che mi disse di togliermi dai coglioni.

Ma tu, tutto questo, non lo hai saputo mai.

 

Era mezzanotte e mezza. L’indomani dovevo presentarmi al giornale. Per la prima volta, entrare nella sede di un quotidiano importante. E cominciare quella che poteva essere la carriera di una vita.

Intanto, però, stavo camminando con i denti nella mano, la bicicletta trascinata nell’altra, verso l’ospedale di Santa Maria Nuova. Il medico del Pronto soccorso era una donna. Con lei due infermiere. Ridevano. “Sai quante ne vediamo ogni notte di queste scene?” mi disse la dottoressa. Le due infermiere ridevano: “E che vuoi che sia, hai perso due denti!”. Mi dettero sette giorni di prognosi, così non scattava nessuna indagine su chi mi avesse preso a pugni.

Tornai piano piano, trascinando la bicicletta, verso casa.

Entrai, girai piano la chiave, e scivolai in camera, nel letto.

Lavai con cura i due denti che avevo fra le mani. Scoprii che, se li spingevo nel posto dove stavano prima, miracolosamente combaciavano ancora, e sembravano incastrarsi di nuovo. Chissà, pensai. Magari, se premuti forte, magari si riattaccano, come le ossa. In fondo, non sono ossa anche i denti? Così tenni tutta la notte i due denti rotti in bocca, convinto che al mattino dopo sarebbe sembrato tutto meno brutto.

E sperai che fosse tutto un sogno. Che al mattino mi sarei risvegliato che ero ancora quello di prima. Che al mattino niente di quello che avevo vissuto si sarebbe rivelato reale.

Appena sveglio, toccai i denti che avevo tenuto incastrati tutta la notte. E subito, caddero.

Poi ebbi un’altra sorpresa. Non avevo più un viso. Avevo una specie di palla, non era una faccia, non ero io. Somigliavo a Elephant Man, quell’uomo malato che aveva la sindrome di Proteo, con la testa tutta deformata, deriso da tutti, esibito nei circhi. Quello che girava con un sacco sulla testa, per coprire la sua deformità. Ecco. Elephant Man ero io. Non c’era un naso, non c’era una bocca, non c’erano gli occhi, ma un unico caos assurdo, scomposto, un altro essere che non conoscevo. Due ore dopo, dovevo presentarmi al direttore del giornale.

Beh, a ripensarci, forse avevi ragione a essere ansiosa, quando uscivo.

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