La scatola del Natale

di Olivia Gobetti

Il momento dell’apertura della ‘scatola del Natale’, rappresentava l’inizio delle vacanze scolastiche invernali, e coincideva con quella leggera aria di mistero negli occhi di mia madre, confusa in un pizzico di soddisfazione trattenuta che, dallo sguardo, scivolava direttamente sulle sue labbra per tendersi in un sorriso stretto, come uno spicchio di luna all’insù.

Quella stessa sera, rincasando prima del solito, papà si faceva largo tra il divano a fiori, le poltrone con i braccioli rivestiti in velluto rosso, e l’inutilità dei ninnoli sul tavolino ovale del salotto, reggendo tra le braccia un grande ramo di abete. Il profumo di muschio e di resina lo precedeva, e mi piaceva davvero tanto respirarlo forte, a occhi chiusi: sapevo che non sarebbe durato a lungo, ma intanto l’alberello era là, e la sua presenza spargeva attorno a sé promesse di piccoli desideri da realizzare, sì, proprio adesso che una magnifica sensazione senza nome, stava tenendomi a braccetto.

Negli anni a venire, mi avrebbero spiegato che questa cosa bella, aveva un nome: felicità. Così l’avrei chiamata e rincorsa con insistenza nel corso della vita, senza rendermi conto che la felicità ama l’improvvisazione, la sorpresa. E soprattutto, detesta essere chiamata per nome.

La scatola del Natale sonnecchiava polverosa su uno scaffale della cantina, sepolta da indumenti di vario genere che nessuno della famiglia avrebbe più indossato, vecchie collezioni di ‘Rakam’ di mamma con i cartamodelli, e regali inutilizzati che da anni attendevano la loro buona occasione per essere riciclati.

Il cartone robusto che avevo dipinto a circa quattro anni con i pastelli a cera, mostrava sulla parte frontale un buffo quanto improbabile Babbo Natale con i baffi e i pantaloni rossi ma corti, e un pino scheletrico da cui pendevano grandi sfere di un rosso scarlatto che parevano enormi mele, più che decorazioni natalizie.

Alla sua apertura, una sorta di commedia ‘ a soggetto’ che si replicava ogni anno sul palcoscenico in legno del tavolo nella sala da pranzo, potevo solo assistere senza possibilità alcuna di interferire sul copione, mettendo mano sulle fragilissime palline in vetro soffiato.

Una ad una, queste sfilavano sotto i miei occhi che rubavano colori e sensazioni di meraviglia, senza sapere che quei piccoli ornamenti colorati avrebbero messo profonde radici nel tunnel sotterraneo della mia memoria.

Senza alcun dubbio, quelle concave erano le più delicate e per me, sicuramente le più preziose: al loro interno svelavano magiche combinazioni di colore, come il rosa, il verde, l’argento e il turchese. Le sfioravo con l’immaginazione e, una volta appese all’albero, rimanevo incantata per ore a osservarle, sognando di farmi ancora più piccola e poterci entrare, passeggiando con disinvoltura nella luce multicolore delle sue sfumature.

Ricordo il cavallino a dondolo in ceramica, la trottola in vetro con la porporina argentata, il pupazzo di neve con sciarpa e cappello, un piccolo elfo in legno lucido che muoveva disordinatamente braccia e gambe, un pettirosso smaltato con le zampine che poggiavano sul legno intrecciato di una minuscola ghirlanda, la casetta di cioccolata di Hansel e Gretel, la ballerina con il tutù in tulle bianco e le scarpette rosse con la punta in vetro, e poi, scarponi da montagna, trenini di cioccolato e zuccherosi angioletti che mai avrei potuto assaggiare… tutti quanti erano testimoni inconsapevoli di un tempo che, anno dopo anno, trasformava, maturava, a volte scoloriva ma senza intaccare niente di ciò che, passando attraverso le emozioni di una bimba, rappresentava un sogno ad occhi aperti.

E proprio come accade nella favola di Pinocchio, ora che siamo grandi, sappiamo che anche certi oggetti possono avere un’anima se resistono caparbiamente ai temporali della vita, e se il loro ricordo serve, ogni volta, a strapparci un sorriso.

*Immagine pixabay

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