La telefonata inaspettata

DI GIOVANNI BOGANI

15:00
Vado nella casa di mia madre. E sto sbaraccando tutto. Non so dove lo metterò, so solo che sto sbaraccando. Che sto smontando un pezzo dopo l’altro tutti i ricordi. Sono un vaso, un libro, una fotografia, e tutto lo sto distruggendo senza ordine. Mamma perdonami. Io ho cercato di salvare tutto, non ce l’ho fatta.
16:19
E mentre sto buttando via quelle piante finte che ho visto per tutta la vita, mentre scrivo col pennarello che cosa c’è dentro quelle scatole che non aprirò mai più, mentre passo il nastro adesivo chiudendole come piccole bare di libri che hanno significato qualcosa nella mia infanzia, mentre penso a “Conoscere” e quanto avevo desiderato avere quella enciclopedia, che mio cugino mi regalò quando avevo già forse vent’anni, io che da ragazzino avevo tanta voglia di sapere tutto quello che c’era là dentro, di brucarne le pagine, di berne le pagine, di mangiarle.

Squilla il telefono, da qualche parte fra i fascicoli, i sacchetti di plastica, i rotoli di nastro adesivo, la polvere, i giornali per imbottire le scatole, squilla il telefono ma non lo sento,
me lo dice Alessio che squilla il telefono.

Ma è un numero strano, che comincia per 1. Come se fosse un numero americano. Decido di non rispondere. Ci manca un virus nel telefono, poi sono a posto.
Ma insiste. Non capisco davvero chi possa essere. Magari mi invitano a un festival, vai a sapere. Il desiderio di felicità è talmente forte, sempre, che si risponde quasi a ogni chiamata.

Potrebbe sempre essere il nostro 13 al totocalcio. Ma già, il totocalcio non esiste più, e neppure la mia felicità promessa, quella che dovevo avere da bambino, che avevo iniziato a raccogliere i bollini con le prime buone azioni e i primi sorrisi.

Eccheccazzo, suona ancora? Rispondo. Nel display c’è scritto “Minnesota”. Minnesota mi fa pensare a “Fargo”. Magari c’è la neve. Una voce di donna, sulla cinquantina. Mi parla in inglese, anche io parlo in inglese. Ma so che posso durare poco.

16:20
“Qui è il National Geographic”, mi dice. Ma io non voglio fare un abbonamento, gli voglio dire. Ma non so come si dice abbonamento in inglese. I’m not interested in any commercial offer, le dico. I didn’t ask for anything from National Geographic, ripeto, credendo che mi abbia addebitato l’ordine di qualche rivista, o libro, o dvd.

Ma la signora insiste, e mi dice “Geo/wani, is this you?”. Sono Geo/Wani, in effetti. Come cazzo fa a saperlo? “Did you ask for a conference call with National Geographic”, e continua a parlare… Io? Una conference call? E lei mi dice: “La metto in connessione con la conference call, la vuole o no? Avrà trenta minuti, e può preparare una domanda.

Vuole fare una domanda?”. E io non so che rispondere, non so a che cosa. Comunque dico che va bene, mi metta in collegamento.
E poi mi viene in mente: giorni fa qualcuno, via mail, mi aveva proposto una intervista con Ron Howard, ma non mi aveva mai parlato al telefono. E io non avevo risposto alla mail. Ma ero sicuro, strasicuro che era una cosa molto, mooolto lontana nel tempo. Tipo almeno una settimana. O almeno dopodomani. Sarà mica proprio “quella” intervista?

Sono al telefono, c’è una musica di attesa. Guardo fra le mie mail: cerco Ron Howard. In effetti c’è una mail, la leggo. C’è scritto “sarete 15 giornalisti da tutto il mondo. Avete 30 minuti e avete diritto a una domanda ciascuno. L’appuntamento per la conference call è l’1 novembre alle 16.30”. Chiuso. Guardo che ore sono: le 16.21 del primo novembre.

16:21
Ho nove minuti tre per capire di che cosa si sta parlando, e preparare una domanda. Si parla di una serie che si chiama “Marte”, “Mars”, è la seconda serie, la prima è già andata in onda. Il produttore è Ron Howard. Ed è con lui che parleremo, in conferenza mondiale, fra nove, no, aspetta, fra otto minuti.

Mi metto in cucina, mentre l’imbianchino continua a imbiancare la stanza accanto. La musica di attesa finisce, una voce di uomo fa l’appello. Il primo giornalista viene dalla Russia, il secondo dalla Romania, il terzo sono io.
Devo preparare una domanda in inglese e cercare di capire la risposta.

Posso dire a Ron Howard che ho “recitato” con lui, a Firenze, in “Inferno”, dove ho fatto la comparsa e mi sono trovato tutto il giorno fianco a fianco con Tom Hanks?
Posso dirgli che da ragazzino tornavo a casa apposta per vedere “Happy Days”? Che alle sette e venti era l’unica cosa sicura della mia vita? Che Ricky Cunningham è stato quasi un modello di vita e di garbo per me? No. I publicist non me lo permetterebbero.

E mi viene in mente che questo signore ha vinto due Oscar, che ha diretto “Splash, una sirena a Manhattan”, ma anche “A Beautiful Mind”, “Il codice Da Vinci” e tutti i film con Tom Hanks che ricerca intrighi segretissimi nel mondo, che ha diretto “Rush” su Niki Lauda, che ha filmato “Apollo 13”, che ha diretto decine di film che tutto il mondo, ma proprio tutto il mondo, ha visto.

Che è uno dei numeri uno al mondo, quello con cui sto per essere messo in contatto, insieme ad altri giornalisti che forse stanno in uffici seri, a Londra, a San Paolo del Brasile o a Islamabad.

Però qualcosa mi viene in mente. Mi viene in mente che Ron, da bambino, guardava di sicuro la fantascienza. È del 1955, forse del ’54 insomma era bimbo negli anni d’oro dei film su Marte e i marziani, dei blob e delle avventure nello spazio.

Com’è cambiato il suo modo di immaginare Marte da allora?
E gli faccio proprio quella domanda. E sento che, da qualche parte nel mondo, c’è un ragazzino che parla dentro un regista che ha vinto due Oscar, e io mi sento salvo.

E mi dà una risposta lunga, con la voce quasi contenta di quella domanda lì, e io vorrei abbracciarlo da questo desolato e piccolo pianeta dove sono, fra il pennarello, le scatole di cartone, lo scotch e la polvere, dal mio personale Marte lontano, dal mio Plutone di Rifredi, a guardare dentro un telefono dove c’è scritto “Minnesota”, e dove la voce di uno che è stato Ricky Cunningham continua a parlare. Thank you, thank you very much.

Immagine tratta dal web

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