La vita capovolta

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Del libro (edito da Adelphi, anno di pubblicazione 2019) “Il dono oscuro” di John Hull, ho letto alcuni passi.
“Il dono oscuro” tratta il tema della mutata condizione esistenziale dell’autore australiano, studioso e professore di teologia all’Università di Birmingham.

Nel 1983, a 47 anni circa, John Hull perse la vista per una patologia degenerativa della retina. La sua vita però continuò all’insegna del lavoro di insegnante, di scrittore, di studioso; continuò anche a frequentare la comunità religiosa di appartenenza. E tutto cercando di adattarsi alla nuova condizione esistenziale.

Negli anni della progressiva cecità, vissuta con impatto drammatico, raccontò su diari la metamorfosi che stava subendo. Emozioni, sensazioni, percezioni di sé e del mondo intorno a sé sono frutto di un’attentissima analisi che John Hull registra su nastro e che sono oggetto del libro “Notes on Blindness”, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2019 con il titolo “Il dono oscuro”.

Il neurologo Oliver Sacks che firmò la prefazione, definì questo libro «un capolavoro» in cui viene mostrato «l’universo della cecità, come un resoconto diretto e lineare non avrebbe mai potuto fare».
A questo punto, partendo dai passi letti, provo a compiere un’operazione che definirei per certi versi ardita, cercando
1- di cogliere gli aspetti positivi di riscatto esistenziale per chi è colpito dalla cecità.
2- mettendomi, di tanto in tanto, per quanto possa essere possibile, nella pelle di uno dei tanti John Hull che ci camminano accanto, di cui non ci si accorge neppure e che pure fanno parte della comunità umana.

In uno dei passaggi del libro, Hull dice “So che tra me e il mondo c’è una montagna di roccia […] Sono intrappolato in un nascondiglio insopportabile”.
Cosa succede a chi non più fare uso normale degli occhi? Provo a chiuderli, gli occhi. L’assenza di luce mi impedisce di “conoscere”, di sapere direttamente le qualità concrete di una realtà fatta di cose e di potermi fare di questa realtà un’opinione. Attraverso gli occhi, insomma, io conosco, nomino, costruisco il mio pensiero.

Passare al buio permanente da una condizione di luce non è un atto fluido, semplice. Richiede un grado di volontà grande, di accettazione. Abbracciare un mondo inesplorato, non avere più i punti fisici e mentali di riferimento, costruiti per anni, cambiare i riti quotidiani che ci hanno accompagnati, rafforzando i nostri comportamenti e, spesso, resi “espatriati” dalla “normalità” della comunità degli uomini, sono soltanto alcuni dei punti di partenza di una rivoluzione copernicana a cui è sottoposta una vita “intrappolata”.

Cosa farei io in una vita improvvisamente nuova, sconosciuta, fatta di cromatismi mentali? Le azioni quotidiane: il risveglio, la cura della mia persona, l’organizzazione del lavoro, gli spazi esterni ed interni, dentro ai quali scorre la vita stessa…
Quale misura, quale punto giusto, quale limite di normalità assumono queste azioni nella propria dimensione intima?.

Nella progressiva perdita di contatto con la concretezza di immagini visive riflesse, John Hull parla di perdita del proprio volto, di voci senza un corpo che gli parlano e della percezione che ormai ha di sé stesso, “puro spirito e fantasma” un “ricordo”.
Perdere dunque i contorni del proprio volto e rischiare di scomparire nell’oblio, ascoltare le voci degli altri che si infilano come tanti spifferi di vento dalle porte e dalle finestre e farsi un’idea di chi parla dall’intensità, dalla densità di quel soffio di vento stesso, dalla pressione degli oggetti che si frappongono tra noi e le voci che ci parlano o semplicemente che parlano intorno a noi, può essere disperante ma essere anche un’opportunità per scandagliare in sé.

Spazio e tempo diventano misurabili in termini di contrazione – lo spazio- e di dilatazione – il tempo. Tutto assume un passo di lentezza e profondità. La velocità dei vedenti, fatta anche maggiore dal progresso tecnologico, perde di valore per chi non vede. Mi posso allora “vedere” e percepire in ogni piega della mia tridimensionalità.
La chiama Hull “Fenomenologia del mondo non visibile”, quella del mondo senza volto che però torna ad avere cittadinanza e legittimità di esistenza allorché i suoni della Natura ci ricordano che questo mondo assente esiste.

Pioggia, vento, tuoni, tempeste… la natura “spettinata” in forza della quale le foglie danzano, le cartacce si sollevano, gli edifici contro cui gli elementi della natura e il mio volto si oppongono, e nello scontro fanno sentire la loro presenza, fanno percepire delle forme, creano immagini, producono l’anima delle cose. Dice Hull: “I tuoni “danno improvvisamente un senso dello spazio e della distanza. Un tuono mette un tetto sopra la testa, un soffitto a volta, altissimo, fatto del suo rombo. Sento di trovarmi in un luogo ampio dove prima non c’era niente […] Il vento gli alberi li crea: dove prima non c’era niente, ci si ritrova circondati.”

E ancora, la pioggia “ha un modo tutto suo di dare un contorno a ogni cosa; getta una coperta colorata sopra le cose prima invisibili; dove prima c’era un mondo intermittente e quindi frammentato, ora la pioggia, cadendo regolare, dà continuità all’esperienza acustica”.

Del resto per un me non vedente “dove c’è movimento tutto esiste”; “quando la gente non fa nulla, sparisce. ”Muoversi vuole dire essere, essere in divenire, dice Hull. In uno spostamento itinerante dove posso immaginare una zona di persone e oggetti in metamorfosi, mi sposto in un indefinito e infinito cammino, arrivo a percepire la consunzione di tutto, mi porto in una terra oltre, la terra dell’oltre.

Sparita la vista, io posso agire nel mondo, oltre che con l’udito, col tatto.
Dice Hull “Camminare su una superficie piana e aperta è disorientante, perché “non ha struttura”, mentre il campus “scandito da gradini, piccoli avvallamenti e colline, muretti e molti tipi di terreno”, permette di seguire una sequenza e sapere dov’è. Chi è cieco vede con le dita”
“Adoro passare le mani sulla borsa, prima in un senso e poi nell’altro, sentire l’ondulazione delle fibre di velluto. Il contrasto con la durezza e la levigatezza del braccialetto di metallo è delizioso […] Peso, forma, consistenza, temperatura e suoni emessi dagli oggetti: sono queste le cose che cerco”.

A me succede, diminuendo la vista con gli anni, di non potere fare a meno di toccare, sentire con le dita le forme, di fare perno sulla micro funzionalità della mano e dei polpastrelli per potere cogliere la trama dei tessuti destinati alla casa o all’abbigliamento, i perni in cui infilare gli orecchini o viti per sistemare guasti domestici. In quei momenti sento i miei sensi agire per compensazione, una compensazione che salva!

Il sogno, come spazio del recupero e della riprogettazione della realtà
“Mi colpisce la simultaneità tra l’esperienza di svegliarmi e quella di diventare cieco. Ero davanti alle porte dell’ascensore. Il piccolo pannello illuminato scendeva sempre più in basso, mostrandomi una vaga immagine di Michael e della sua famiglia. Poi cominciava a sbiadire, mentre io, disperato e in preda al panico, mi rendevo conto che mi stavo svegliando, e che tra poco avrei perso la vista. Aprivo gli occhi e nella mia mente si faceva di nuovo buio. Ogni volta che torno alla coscienza perdo la vista”.

Magia del sogno! Capace di restituire quanto è stato sottratto dal caso. In quella zona onirica, la vita torna nella sua prorompenza. Il sogno, un dispositivo di salvezza, la zona della coscienza addormentata, della ripresa del respiro alla normalità del prima, reinventata, liberata, forse migliorata; il sogno, l’intervallo necessario alla drammaticità del buio.

Un modo per ricreare la propria vita, per conciliare sé con la nuova situazione, per mettersi in relazione con quella parte della memoria che ha conservare le immagini del passato fino a un certo momento e “imparare a vedere-con-tutto-il-corpo, inventando un nuovo linguaggio”.

scrignodipandora
Latest posts by scrignodipandora (see all)

Pubblicato da scrignodipandora

Sito web di cultura e attualità