L’aquila e la luna

DI FABIO BORLENGHI

 

 

Un racconto vero che sembra una favola.
Fine agosto 1991, Civita è un paese albanese posto a 450 m all’ingresso delle Gole del Raganello, in Calabria. Il suo nome, Çifti, significa ‘nido d’aquila’.

Da un po’ di anni m’interesso di rapaci e in particolare di aquile reali. Sono qui da tre settimane e ancora non riesco a vedere la coppia di aquile presenti in questo territorio.

Dicono che frequentino la Timpa di San Lorenzo, grandiosa parete calcarea alla testata del fosso del Raganello, a ridosso della gola di Barile.

E’ ormai sera e me ne sto accovacciato su un telo in un campo a cinquecento metri dalla Timpa. E’ l’ultima occasione che ho di vedere le aquile, poi dovrò partire. Fa un pò freddo, l’estate è agli sgoccioli ma i grilli cantano ancora.

Sono passate le sette e trenta e ancora niente. Gli spazi assolati hanno lasciato il posto alle ombre della sera. Adesso la Timpa, grigia con riflessi bluastri, appare immensa e la sua forma ricorda la schiena di un dinosauro.

In natura la lunga attesa di un avvistamento amplifica a dismisura il senso di solitudine producendo riflessioni interiori al limite della metafisica.

Ma in questo lembo selvaggio di terra calabra, che sembra appartenere a nessuno, dove il bracconaggio e le tante aquile morte nel passato, non troppo lontano, lasciano temere il peggio, quest’attesa diventa inquietudine.

Quand’ecco due sagome scure apparire alte sulla cresta della Timpa; qualche secondo per capire col binocolo di che si tratta e…sì sono loro, le aquile!. Le vedo battere con vigore le grandi ali possenti, non più in grado di sostenersi in volo con l’aria calda ascensionale ormai scomparsa insieme al sole.

Le seguo ancora per un po’ col binocolo, bellissime. Volano affiancate poco sopra la cresta della parete, la femmina più grande del compagno. Poco dopo il maschio chiude le ali per poi picchiare in volo verso il basso, rasentando a strapiombo la parete rocciosa, per poi virare fulmineo verso una cornice di roccia dove posarsi: sarà questo il suo posatoio notturno.

La femmina invece è ancora lì dove l’ha lasciata il compagno, in lento volteggio sulla Timpa. Ormai la luce è quella della sera, con l’azzurro che vira al blu e la grande aquila che appare quasi nera.

D’un tratto si ferma in volo, indugiando per pochi secondi con la testa rivolta al centro della valle e le ali di poco racchiuse. Eccola partire in volo in una lenta scivolata, raggiungere il centro della valle per poi oltrepassarlo fino ad arrivare al versante opposto.

L’immagine dell’aquila si fa sempre più incerta, la luce scarseggia e così la perdo di vista, peccato. Sono certo che l’aquila è ancora lì, di fronte al bosco di pini loricati, in volo o magari posata su un grosso ramo, non so.

Possibile che abbia fatto tutta questa traversata per andarsi a trovare un posatoio a cinque chilometri di distanza dal maschio, quando ne avrebbe avuti tantissimi a disposizione lungo la Timpa?

Tento l’impossibile. Lascio il binocolo e punto il cannocchiale nell’ombra scura del bosco lontano, riducendo al massimo l’ingrandimento per carpire gli ultimi bagliori di luce. Passano interminabili secondi e poi…eccola! Un’ombra scura, imponente, sta volando lentamente in mezzo alle cime degli ultimi pini, quelli più in alto prima della cresta. Accompagna i fantasmi della sera, i più impenetrabili per gli umani, quelli del buio.

Ora la scorgo sulla cima della Manfriana, illuminata dalle ultime luci da ovest. Una densa foschia segnala che la temperatura è scesa di molto. L’aquila, con le ali spiegate, indugia sospesa nel cielo blu, oscillando ora a destra e ora a sinistra, immersa nella nebbia.

Ancora non capisco le sue intenzioni; poi, puntando a nord-ovest, la protagonista di questa favola estiva scivola lenta e maestosa verso la Serra Dolcedorme fino a scomparire alla vista.. e la luna la sta a guardare…

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