Le “case nuove” (Una storia di famiglia)

DI ORNELLA SUCCO

Le case nuove erano già vecchie quando i miei bisnonni, Angela e Grisante, in fuga dalla campagna che non offriva più a loro e ai loro cinque figli la possibilità di una vita dignitosa, giunsero a stabilirsi in questa grande città che sarebbe divenuta la città dei loro figli, dei loro nipoti e dei loro pronipoti…

Perché scelsero proprio quel luogo? Probabilmente perché costava meno di quanto costassero abitualmente gli alloggi in città e forse anche perché le case nuove sorgevano ancora in mezzo alla campagna, fuori dalla “cinta” delle mura daziarie, ricordando anche nell’aspetto le cascine dalle quali erano partiti…

Pareva forse loro, fermandosi in quel luogo alle porte della città, di non aver tagliato del tutto il legame, vecchio di secoli, con la terra che erano costretti ad abbandonare.

Non erano certo i primi ad aver lasciato il paese per la città, altri parenti od amici già si erano stabiliti in questo luogo anonimo, dove a malapena si arrivava a conoscere il nome dei propri vicini.

Era la fine dell’800, la città aveva a lungo elaborato il lutto per la sua perdita di ruolo, per il non essere più la capitale di questo giovane Stato e ora una nuova forza, quella dell’industria e del lavoro sotto pagato di migliaia di persone, restituiva speranze, attese, sogni: gli ideali del socialismo e i miti del progresso si mescolavano al desiderio di riscatto, al guizzo inatteso di un orgoglio difficile da abbattere.

In questa città, attraversata da sentimenti, fermenti, potenzialità e opportunità, i miei bisnonni arrivavano con lo stesso ottimismo che Ungaretti sintetizza nell’espressione “allegria di naufragi”: si era vivi, anche se ci si era resi conto di non poter più vivere nel paese in cui si era nati e allora si era presa la decisione di spostarsi a costo di perdere le proprie radici.

Nella campagna sulle rive del grande fiume, là dove erano vissuti per secoli i loro antenati, era giunta la voce che la città era un punto di approdo, una terraferma sulla quale era forse possibile ricostruire la propria esistenza.

Così, indirizzati da qualcuno o per pura casualità, giunsero alle case nuove: un gruppo di costruzioni poco lontane dal corso della Dora Riparia, disposte su due cortili quadrati, simili all’aia di un grande cascinale, con alloggi disposti per lo più su due piani, proprio come nelle case di campagna.

Generalmente la cucina si trovava al piano terra ed una scala esterna in legno permetteva di salire alle camere da letto poste al primo piano. In realtà, il più delle volte, la camera da letto era solo una e prendeva luce unicamente dalla porta d’ingresso, ma erano stanze grandi e si poteva dividerle con dei tramezzi di legno, ricavandone due spazi separati che salvassero, almeno in apparenza, l’idea di una sopravvissuta intimità per quella che avrebbe dovuto essere una stanza matrimoniale.

Dai lunghi racconti di mia madre ho appreso che i miei bisnonni occupavano un alloggio collocato per intero al primo piano, con due o tre stanze allineate su di un ballatoio, al fondo del quale c’era l’unico gabinetto del piano, da condividere con altre famiglie.

Dei miei bisnonni materni so poche cose, il padre di mio nonno si chiamava Grisante ma veniva chiamato “l’Grand”, forse per l’età o per la statura o per tutte e due le cose, ma morì quando mia madre era ancora bambina e la sua memoria conservava di lui una sola immagine: quella di un vecchio, magro e ossuto, che a turno prendeva sulle ginocchia i nipotini mettendosi sulle orecchie grappoli di ciliegie per farli divertire.

La madre di mio nonno invece era, per tutti, la nonna Angiolina ed era mite e allegra, sempre pronta a contenere le intemperanze dei figli, soprattutto dei maschi.

Pietro, mio nonno, era il terzogenito ed era nato a Crescentino nel 1885 ma fu appunto a Torino che conobbe la sua futura moglie. Si erano incontrati in un modo strano: un amico aveva portato Pietro con sé per andare a fare visita ad una famiglia dove c’era una ragazza in età da marito.

Era una famiglia giunta a Torino da Carpignano Sesia, parlavano un dialetto che aveva sfumature diverse da quelle classiche del piemontese, ma erano gente seria e lavoratrice.

Avevano due figlie femmine: Teresa e Giuseppina, e due figli maschi: Natale e Giovanni; alcuni anni prima avevano perso un’altra figlia appena adolescente, Delfina, e ora sembravano propensi a lasciar sposare Teresa che aveva già compiuto 18 anni mentre Giuseppina era ancora una bambina.

Pietro, dunque, accompagnò l’amico per dargli un parere sulla possibilità di chiedere la mano di Teresa ma, quando la vide, fu chiaro a tutti i presenti che il cuore che aveva cominciato a battere era il suo.

Teresa vestiva ancora come le contadine del novarese, portava abiti tagliati appena sotto il seno che si rivelava prosperoso anche attraverso la stoffa informe e nonostante l’assenza di busto o reggiseno; aveva i capelli scuri e gli occhi vivacissimi, la pelle chiara come il latte e non parlava molto.

Non parlava ma i suoi occhi parlavano per lei, le si leggeva chiaramente in viso ciò che pensava e anche ai suoi genitori fu chiaro che Pietro le piaceva più dell’amico che si era fatto accompagnare a conoscerla.

L’amico non era stupido e nemmeno follemente innamorato, si fece da parte e lasciò che Pietro avanzasse la sua domanda di matrimonio che, naturalmente, fu accolta.
Teresa era rimasta affascinata dalla parlantina di Pietro, dalla sua cortesia, dai suoi modi, il rovescio della medaglia ebbe modo di scoprirlo fin dal giorno stesso del matrimonio perché Pietro era un idealista, socialista convinto e anche un po’ intransigente.

Andarono, com’era prassi a quei tempi, a sposarsi in Municipio, con l’idea di passare, subito dopo, a far celebrare il matrimonio religioso in chiesa: quando giunsero alla parrocchia, però, il parroco disse loro di tornare l’indomani, ché non aveva tempo di sposarli subito.

Pietro si infuriò tantissimo e disse che se il prete non aveva tempo subito, lui non avrebbe avuto tempo l’indomani e fu così che il loro matrimonio non venne mai celebrato in chiesa. La cosa causò a Teresa un grosso dispiacere, ma far recedere Pietro da una decisione non sarebbe mai stata una cosa semplice…

Comunque sia, nonostante la parola assumesse in quel contesto un significato molto diverso da quello che vi attribuiamo oggi, il loro fu un matrimonio d’amore e io ricordo di aver visto il volto di mia nonna illuminarsi come quello di una ragazza mentre, a cinquant’anni di distanza, parlava del marito morto troppo giovane e della sua passione per la musica, per il ballo, per la compagnia… tutte cose che Teresa non considerava fondamentali nella vita ma che aveva condiviso per amore di lui.

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