Le conseguenze di quell’incontro

DI GIOVANNI BOGANI

 

Avevo male alla testa, il mattino dopo, e la febbre, e non riuscivo a pronunciare parole come “sì”, “sipario”, “sicuramente”, “senza dubbio”, “serio”. Dicevo, come nelle barzellette, “fì”, “fipario”, “ficuramente”, “fenza dubbio”, “ferio”.

E pregavo Dio che al colloquio, il direttore non mi chiedesse di parlare di De Sica.

Avrei pronunciato il suo cognome in un modo poco conveniente.

Avevo due denti in meno, una faccia che tutti si voltavano a guardarla, quando per la prima volta entrai nel grande palazzo color ocra del giornale.

Il portiere mi chiese un documento. Guardò la mia carta di identità e con molto, molto, ma molto scetticismo telefonò a qualcuno, dentro il giornale, che evidentemente disse “ok”. La redazione era grande, un open space con tanti vetri, tanta gente al lavoro, e due stanze. Una era quella degli inviati. Gli dèi del giornalismo. Quelli che vanno nei luoghi dove succedono le cose. Gli inviati di guerra, gli inviati di cronaca nera.

E in quella stanza c’era anche quel signore magro con le bretelle e con i baffi che mi aveva invitato a prendere un caffè, e mi aveva chiesto della Nouvelle vague e del cinema tedesco.

Uno di quegli inviati aveva una barba da rivoluzionario. Mi raccontò di essere andato in Africa, con un preavviso di poche ore, uno zaino fatto in fretta e furia, un rotolo di dollari nei pantaloni, e aerei sempre più piccoli per andare fino in fondo al mondo, piste di sabbia dove atterrare, e alberghi dove i giornalisti del mondo occidentale stavano in attesa. Di un’auto, un taxi, una soffiata per andare a parlare col capo dei guerriglieri, o con il comandante delle truppe governative.

E mi raccontò di quando prese la macchina, di corsa, per andare sul lago Trasimeno, dove avevano trovato il cadavere di un uomo annegato, un dottore che forse era il vero mostro di Firenze, quello che aveva terrorizzato tutti i ragazzini cresciuti negli anni ’80 in questa mia città, che in questo scorcio di secolo non ha avuto gioie, non ha avuto uno scudetto, ha solo avuto il terrore dei ragazzi, di essere uccisi mentre fanno l’amore in un’auto parcheggiata in un viottolo di campagna.

Non incontrai il direttore, ma il capo della pagina degli spettacoli. Poche parole, pochi secondi.

Mi guardò, da dietro gli occhiali da vista fumé. Si chiese, di sicuro, che cosa ci facesse la vittima di un incidente stradale nella stanza degli spettacoli, prima di capire che ero il ragazzino che doveva scrivere un articolo su un film. “Duemila battute”.

“Entro quando?”. “Entro subito”. E se ne andò.

Cercai una macchina da scrivere, quella con la “T” e la “R” trasformate in lame d’acciaio, cominciai a battere sui tasti. E dopo trentacinque anni, non ho ancora smesso. Né ho capito come si fa.

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