Le vite e i capolavori tragici di Pollock e Rothko

DI VANNI CAPOCCIA

 

“Che ci vuole, una cosa così la so fare anch’io”, quante volte l’abbiamo sentito dire di fronte a un quadro informale?

E chissà quante persone l’avranno detto o pensato di fronte a quelli di Pollock pieni di schizzi di vernice e di Rothko con quelle chiazze larghe di colore, due giganti dell’arte che hanno spostato il baricentro dell’arte del secondo Novecento dall’Europa agli Stati Uniti.

Le cui biografie Gregorio Botta – artista, giornalista, già vicedirettore di Repubblica – ripercorre in “Pollock, Rothko. Il gesto e il respiro” edito da Einaudi Stile libero.

Due esistenze parallele eppure tanto diverse, “divergenze parallele” le definisce Botta.

Trascorse nello stesso periodo frequentando gli stessi ambienti, le stesse persone, vivendo incomprensioni e frustrazioni artistiche simili prima d’arrivare ognuno al proprio tragico approdo.

Uno, Pollock, figlio dell’America delle praterie. Bello, incarnava tutta la fisicità americana, pure nel bere prendendo sbronze plateali e colossali.

In lui la pittura era energia, movimento, abolendo ogni centro visivo si muoveva e girava intorno alla tela stesa sul pavimento quasi ad anticipare la body art.

Dipingeva sfrontato facendo gocciolare sulle tele dal pennello, o versandoceli direttamente dal barattolo, o spremendoli dal tubetto colori industriali, brillanti, saturi, con poche gradazioni, insensibili al variare della luce.

L‘altro, Rotko, ebreo arrivato negli Usa dalla Lettonia. Alcolista come Pollock con la meticolosità di un ragioniere bicchierino dopo bicchierino beve nel suo studio una bottiglia di whisky al giorno.

Come un artista del passato si prepara i colori da solo; introspettivo è l’essenza della contemplazione, maestro della pittura tonale passa ore a studiare l’altezza giusta per i suoi quadri alla ricerca dell’effetto esatto che la luce naturale avrà su di essi.

Vuole che lo spettatore entri dentro le sue distese di colore, esige di conoscere il luogo dove verranno esposte, che lo siano ad altezza d’uomo alla penombra affinché l’occhio vi si abitui e catturi tutte le velature di un colore che, come un respiro, pare emanare dalle tele diventando esperienza di pura contemplazione.

Che ci vuole a schizzare colori su una tela o a pennellare grandi distese omogenee di colore?

Una gran fatica interiore che per i due è stata un percorso nel dramma, per uno spiattellato in faccia a tutte e tutti per l’altro introspettivo.

Conclusosi con il dramma: la morte in un incidente d’auto alla cui guida era ubriaco fradicio, con lui viaggiavano due donne una delle quali morì, per Pollock; il suicidio tagliandosi le vene nel suo studio per Rotko.

(foto da G. Botta, “Pollock, Rothko. Il gesto e il respiro”, Einaudi Stile libero).

 

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