Liberi da-Liberi di (Il mio punto di vista sulla libertà, di fare, pensare, credere)

di Daniela Marras


Il professore entrò nell’aula ed esordì chiedendo: “Cos’è la libertà?” e noi in coro: “Fare ciò che si vuole!”. Al che lui replicò: “E se io adesso dessi uno schiaffo a Giancarlo?!”, lui che una volta tanto era buono e zitto… Restammo spiazzati, ammutoliti per un po’, poi – giovani menti – cercammo di sviluppare il nostro pensiero.

Arrivammo alla conclusione e fummo d’accordo nel formulare una risposta che più o meno suonava così: “Libertà è fare ciò che si vuole nel rispetto della libertà altrui, fare ciò che si vuole senza invadere l’altrui sfera di libertà”. Ci sembrò una buona definizione.

Era in nuce il problema di libertà e tolleranza, sintetizzato nella celebre frase attribuita, con varianti, a Voltaire: Non condivido ciò che tu pensi ma combatterò fino alla morte perché tu possa continuare a pensarlo. Il “Trattato sulla tolleranza”, pubblicato nel 1763, fu ispirato a Voltaire da un fatto di cronaca e sono ora i recenti fatti di cronaca nella patria del filosofo e la loro eco mondiale che hanno portato, dopo l’elefantiaca ondata di “Io sono Charlie”, alla riformulazione del concetto attribuito al pensatore francese, con le parole dell’autore libanese Dyab Abou Jahjah: “I am not Charlie, I am Ahmed the dead cop. Charlie ridiculed my faith and culture and I died defending his right to do so”.

Ognuno è libero di pensarla come crede e come vuole e queste poche righe vogliono essere solo l’esposizione di una mia personalissima, condivisibile o meno, riflessione. Non mi addentrerò né in questioni filosofico-giuridiche né tantomeno di tipo sociologico e politico.

Tutti in Italia si sono scagliati a difesa non tanto della libertà di stampa ma di qualcosa in più come indicato da alcune frasi come “Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione” e “Irridere è un diritto umano”: due delle tante che si possono pescare in rete, in articoli e commenti di giornalisti e pensatori, esperti a vario titolo.

Mettere in ridicolo tutto, una “fede” religiosa, una “cultura”, è davvero un “diritto” nelle nostre società?! Così parrebbe da quanto tutti vanno affermando, compreso l’autore libanese Dyab Abou Jahjah, sopra citato.

Ebbene, io, senza nessuna pretesa di originalità (qualcuno che abbia già fatto riflessioni simili ci sarà), dicevo, io non ne sono convinta.

Sarà per gli studi universitari, sarà per la mia formazione pregressa, compresi i momenti di brainstorming alla scuola media, ma trovo certi eccessi – che tali mi appaiono – irritanti e provocatori.

È da manuale, nelle lezioni di diritto costituzionale, l’insegnamento che la libertà di stampa spesso si scontra con altre libertà e altri diritti che vanno tutelati allo stesso modo e che non è scontato che tale libertà debba sempre e comunque prevalere: potrebbe doversi misurare con il diritto alla privacy, all’onore, alla reputazione, alla riservatezza, alla sicurezza e via dicendo.

Certo nessuno invoca censure e limitazioni irragionevoli e ingiustificate: proprio la libertà di stampa è stata, come è noto, una delle libertà affermate nelle prime dichiarazioni dei diritti e nelle prime carte costituzionali.

Ma, parlare di “libertà di dissacrazione”, “diritto umano” di “irridere”, “diritto” di “ridicolizzare” a me pare una forma di fanatismo ottuso e irriverente tanto quanto le forme di fanatismo religioso che si vorrebbero combattere con penne e matite.

Niente giustifica il ricorso alla violenza, alla minaccia, al terrore ma schernire un credo, una fede, togliere sacralità a quelli che per alcuni (pochi o tanti non importa) sono valori fondanti di una vita o di una società, mettere in ridicolo tutto e il contrario di tutto con la pretesa di esercitare un “diritto”, naturale o protetto dal diritto positivo che sia, e di essere più “evoluti”, “liberali”, “lungimiranti” e “aperti”, a me sembra espressione di arroganza intellettuale e prepotenza morale liberticide e socialmente suicide.

Immagino che siano pensieri, i miei, impopolari e da taluni considerati retrogradi, ma mi avvalgo anch’io della libertà di pensiero garantita dalla nostra Costituzione.

In breve, “libertà di dissacrazione”, “diritto umano” di “irridere”, “diritto” di “ridicolizzare” a me sembrano inviti a forme diverse di intolleranza e mancanza di rispetto reciproco.
In sostanza, inviti a schiaffeggiare qualcuno immotivatamente o inviti a prendersi reciprocamente a schiaffi!
Concludo con i famosi versi di Bertolt Brecht:

A coloro che verranno

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.

Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
e sono perduto).

“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

Sardara, 9 gennaio 2015

                 

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