Ma il rapporto scuola-giustizia è difficile anche perché i due mondi non si conoscono e si avvalgono di linguaggi e vocaboli diversi. Parlando di maltrattamenti, ad esempio, dobbiamo intenderci su cosa si intende per “percossa”. Il termine è spesso “abusato”, piuttosto che “usato”, nella redazione degli atti processuali, tanto più che, come detto, non è sostenuto da certificazioni mediche che attestano le eventuali conseguenze delle percosse. Tutto – secondo gli inquirenti – diviene “percossa”: dal buffetto allo scapaccione, dallo sculaccione allo scappellotto, fino a impedire di distinguere un comportamento francamente manesco e punitivo da una sollecitazione spiccia od occasionalmente energica per particolari esigenze o circostanze. Vediamo dunque l’interpretazione giuridica del termine “percossa”.
Secondo la Suprema Corte “il termine “percuotere” previsto dall’art. 581 c.p. non è assunto nel suo significato letterale di battere, colpire, picchiare, ma in quello più lato, comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica (Cass. 5 sent. 4272/2015). Può avere senso una simile accezione in ambiente scolastico e in particolare per i bimbi prescolarizzati degli asili nido e delle scuole dell’infanzia? Verosimilmente no, ma proviamo a spiegarci. Tanto più un bimbo è piccolo (si pensi al neonato, ma anche al bimbo dai 6 mesi in avanti), tanto più il rapporto con l’adulto di riferimento (la mamma, la balia, l’educatrice, la maestra) è fisico piuttosto che dialogico e alla pari. Posto inoltre che l’ambiente di una scuola dell’infanzia è parafamiliare, lo stesso può raggiungere, per legge, un rapporto maestra-bimbi di 1:29, mentre la relazione in ambito familiare, quella tipicamente materno-filiale, è di 1:1. La differenza tra le due tipologie di ambiente è evidente, come pure l’impegno, la difficoltà e le modalità per educare, crescere, vigilare sull’incolumità dei bimbi. In conclusione, la predetta definizione giuridica di percossa non sembra adattarsi alla dimensione scolastica poiché trascura quelle necessità pedagogico-formative-protettive proprie del rapporto maestra/educatrice-alunno che richiedono veloci tempi di reazione. La tempestività d’intervento richiesta più volte all’educatrice nell’arco della giornata lavorativa può tradursi in manovre sbrigative, talora brusche e finanche violente perché repentine, pur sempre a tutela di tutti i minori. Siamo di fronte all’ennesima riprova che termini e metodi della giustizia mal si adattano alla dimensione scolastica che può, e deve, essere gestita dagli addetti ai lavori (dirigenti scolastici e responsabili) e non da profani esterni.