di Michele Piras
Quando i migranti eravamo noi ci disprezzavano, dicevano che eravamo sporchi, che parlavamo una lingua a loro incomprensibile, che avevamo usi e costumi arretrati che non si integravano con quelli locali.
Dicevano che avevamo tradizioni religiose pittoresche, arcaiche e grottesche, che vivevamo ammassati in appartamenti fatiscenti, che eravamo rissosi, mafiosi, ladri, ignoranti, libidinosi.
Che rubavamo il lavoro e che dovevamo tornarcene a casa nostra.
L’8 agosto del 1956, 300 minatori morirono di una morte infernale, intrappolati all’interno di una miniera belga andata in fiamme per un corto circuito.
La maggior parte erano italiani, poveri, migranti, sporchi di lavoro e di stenti, distanti giorni di viaggio dal loro mare, dalla loro terra, dalle loro montagne, famiglie, amicizie.
E conservare questa memoria popolare, del sacrificio della nostra classe operaia, dei nostri padri, madri e nonni, è il modo migliore per non cedere mai alle sirene della xenofobia, della cattiveria, della narrazione, falsa e distorta, delle destre e del nazionalismo.
Giustizia sociale, cooperazione allo sviluppo, accoglienza e solidarietà, altro che blocchi navali.
Lo dobbiamo ai morti di Marcinelle e ai nostri figli.
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