NGUYÊN PHAN QUÊ MAI
QUANDO LE MONTAGNE CANTANO
CASA EDITRICE NORD
<<Questo romanzo è un’opera di finzione>> ci informa l’autrice in apertura di testo.
Poi aggiunge: <Sebbene i principali eventi storici narrati siano reali, i nomi, i personaggi, gli accadimenti descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice>>.
Ci muoviamo, pertanto, su un crinale pericoloso. Per certi versi, ambiguo.
Per due semplici ragioni: la narrazione sembra avere una base storica ma, allo stesso tempo, non pretende di avere rigore storico.
In secondo luogo, costruendo una saga che solo parzialmente si serve di vicende familiari direttamente vissute, offre un punto di vista quanto mai soggettivo e artefatto.
Che non è, ovviamente, di per sé un male. Soprattutto quando lo si sviluppa coerentemente.
Un fenomeno non isolato ma coerente con quanto già riscontrato in altre opere di scrittori vietnamiti emigrati soprattutto negli Stati Uniti.
Mi sovviene alla mente, ad esempio, il bestseller “Il simpatizzante” di Viet Thanh Nguyen.
Le due opere presentano, infatti e per certi versi, caratteristiche comuni.
Opere che in forma squisitamente letteraria vengono utilizzate per veicolare un messaggio che così brutalmente può essere esemplificato: “ci avete sterminato col napalm ma siccome ci avete accolto nel vostro Paese noi rendiamo onore alla vostra ideologia liberale. Che, in fondo, è il mito con cui siamo cresciuti.
In quel frangente vi odiavamo ma attraverso la vostra letteratura e i vostri ideali abbiamo capito che eravate diversi”.
A pagina 144 per esempio, in un dialogo tra madre e figlio, l’argomento viene tirato in ballo perché ineludibile: <<Sostanze chimiche?>> chiese la nonna.
<<Si, le hanno buttate sulle foreste e sulle giungle, in modo tale da far cadere le foglie e poterci così individuare. Ma ciò che hanno utilizzato ha distrutto anche la fauna. Solo dopo la fine della guerra ho scoperto come si chiamava questa sostanza. Un nome bellissimo: Agente Arancio>>.
Oppure, in maniera ancora più cruda, a proposito di un parto deforme: <<La testa era almeno tre volte più grande del torace. La fronte era sporgente. Non aveva più braccia o gambe>> (pag.306).
La domanda fatta al padre dai medici risulta, così, spontanea: <<È stato esposto all’Agente Arancio?>> (pag.307).
Come contraltare l’autrice ci tiene a far formulare alla protagonista dei pensieri pacificatori e riconcilianti.
Dopo aver letto “Nei grandi boschi del Wisconsin. La casa nella prateria” la nostra protagonista Huong afferma:<<Avevo sentito dire che agli americani piaceva comandare sugli altri popoli e che non avevano sentimenti. Adesso invece sapevo che amavano le loro famiglie e che dovevano lavorare sodo per mangiare. Amavano ballare, la musica e le storie, esattamente come noi>> (pag.71).
Una conclusione un pò semplicistica. Da retorica dei buoni sentimenti.
In un altro passo l’autrice fornisce, sempre attraverso la bocca della protanista, una sorta di pantheon letterario di riferimento.
Che, vedi il caso, offre solo nomi di scrittori dissidenti e di tendenze liberali filo-occidentali: <<Avevo letto i libri di Quán, Tran Dan, Hoang Cam e Le Dat, tutti scrittori del movimento politico-letterario Nhan Van-Giai Pham che erano poi stati arrestati. Nelle loro opere, scritte a metà degli anni ’50, chiedevano libertà di espressione e rispetto dei diritti umani […]>> (pag. 255).
Ora, dato quanto subito dal Vietnam nel corso del Novecento ad opera di Giappone, Francia e Stati Uniti, questi pensieri non risultano eccessivamente assolutori?
Non sarebbe il caso di ammettere che durante il periodo coloniale francese o dell’ invasione nordamericana di cotante teorie liberali, di fatto, non vi era alcuna traccia?
Vi erano forse libere università dove confrontarsi?
Per essere, infine, ammessi in un nuovo Paese bisogna necessariamente perdere l’onor patrio?
Sono queste le domande che mi piacerebbe porre ad uno scrittore vietnamita contemporaneo.
Immagine tratta dal web
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