Nino Manfredi, l’arte della disillusione

DI GIOVANNI BOGANI

Sempre quel mezzo sorriso, come quando ti dicono: “Lei è bravo, ma per quel posto abbiamo scelto un altro”.
La smorfia di chi accetta la vita, sapendo che non si vince mai fino in fondo. Almeno, non quelli come lui; non quelli come noi.

Nino Manfredi assomigliava a noi; il suo splendido disincanto è quello che ci avvicina a lui.

Lo senti, quel disincanto, quando lotta per sopravvivere, lusingato, ingannato, multato, licenziato, disprezzato, umiliato, lui emigrato in Svizzera, in “Pane e cioccolata” di Franco Brusati, forse il suo capolavoro.

Il suo disincanto amaro, come il caffè che porta, per gli scompartimenti del treno notturno di “Cafè Express” di Nanni Loy. Quel treno è un grumo di umanità scombinata, un girone infernale in cui lui sembra un angelo caduto.

Nino Manfredi non era stentoreo come Gassman, gigione come Sordi, non era ambiguo come Tognazzi, non era sottilmente metafisico come il suo amico Marcello Mastroianni.

Manfredi era umano, umanissimo. Con l’aria di dire sempre “Ma davvero pensavi che potesse essere meglio di così?”.

Che cosa, meglio? La vita. E’ come se la speranza, lui se la fosse messa in tasca, insieme a qualche manciata di dolore. E sul volto, un’ironia amara.

È la sua poesia, quell’amarezza. È il suo genio, quella semplicità dimessa. Che anche quando deve cantare in televisione, lo fa come se nulla fosse.

Si accende una sigaretta e intona: “Tanto pe’ cantà…”. Si canta, tanto pe’ cantà. Si vive, tanto per vivere. Basta farlo con modestia, in silenzio, con un mezzo sorriso amaro.

Immagine tratta dal web

 

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