Orfani dell’eterno

DI ANTONIO MARTONE

 

Prima di essere un’arma formidabile nelle mani del neoliberismo capitalistico, la frammentazione del mondo che vediamo nelle professioni, nelle conoscenze scientifiche, nelle identità individuali e sociali è un frutto inesorabile della visione del mondo occidentale.

Rispetto all’Oriente, nelle nostre radici manca uno sguardo sull’immutabile e sull’eterno. È vero che tale orizzonte è ben presente nel cristianesimo (fenomeno religioso di matrice orientale) ma l’eterno cristiano è comunque sospeso e condizionato ad una sostanziale svalorizzazione del mondo: “il mio Regno non è di questo mondo”.

La cancellazione del rapporto con l’intero, o meglio, l’aver fatto dell’intero una dimensione totalmente connotata dal divenire, ha portato l’Occidente (nel mondo globale l’intero pianeta è divenuto Occidente) alla costruzione di una mentalità che vede nel dominio del mondo, ottenuto attraverso la frammentazione, il proprio scopo finale e la propria dimensione ideale.

In questa luce, sembrerebbe che la distruzione della terra sia inevitabile. La civilizzazione contemporanea si sostiene sostanzialmente sull’angoscia della rimozione originaria dell’intero e dell’immobile – gli uomini contemporanei, imbevuti di esperienze sulle quali ondeggiamo come bolle di sapone, non riescono più a guardare dimensioni eterne quali – ad esempio – la vita e la morte.

Preda delle loro meschine, ma innumerevoli, soddisfazioni o frustrazioni quotidiane, i nostri contemporanei eclissano ciò che non muta mai – forse perché quest’ultimo è tanto diverso da loro -, rifugiandosi nella consolazione offerta a buon mercato dalla quantità, dalla mediocrità, dalla sazietà senza sapore e dall’ebbrezza senza felicità.

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