Partenze, quando devi inventarti una nuova vita

DI CARLO MINGIARDI

Quell’anno era stato un inverno difficile nelle campagne della pianura veneta, il gelo era diventato un compagno quotidiano con il quale fare i conti.
Le piantagioni stentavano a dare i loro frutti. Nella misera cascina di Donato la preoccupazione si leggeva sui visi stanchi e segnati dalla fame.

E’ dura la fame, è un tarlo che ti vuota lo stomaco e ti riempie la testa di paura.
Sembrava che le temperature si fossero alzate però, forse le preghiere delle donne di casa cominciavano a fare effetto.
Quando il destino però decide di fare la sua strada, non puoi fare nulla per fermarlo.

Le nuvole erano diventate nere come la pece, lo scirocco più caldo si era scontrato con le correnti gelide del nord ed aveva iniziato a piovere che Dio la mandava.
“Padre Eterno aiutaci tu…”
Niente, sembrava che le porte del cielo si fossero spalancate.

L’acqua scendeva dalle vecchie tegole inzuppando tutto, i canali si ingrossavano, i campi erano allagati, i poveri vestiti erano luridi.
Dopo tre giorni consecutivi l’argine del fiume Adige non tenne, allora avvenne l’apocalisse. Un mare di fango tempestoso si riversò con una furia inaudita e spazzò via tutto.

Donato con la sua famiglia, moglie e cinque figli si salvarono  salendo sul tetto pericolante della cascina, furono raccolti da un barchino dopo due giorni allo stremo delle forze.

Riuscirono a portare con loro pochi stracci e gli ultimi risparmi di una vita, avevano perso tutto.
Arrivarono a Padova, ma la città era colma di disperati tutti nelle stesse condizioni, c’era solo una massa di poveri individui che chiedevano l’elemosina per comprare un pezzo di pane.

In quel contesto, trovavano terreno fertile le promesse di una vita migliore fatta dagli agenti di emigrazione, sguinzagliati tra la povera gente dalle compagnie di navigazione che si arricchivano con il grande affare delle traversate oceaniche.

Uno di questi aguzzini convinse Donato a partire per l’America, gli scucì gli unici risparmi che aveva e una mattina di febbraio tutta la famiglia si imbarcò al porto di Genova sul bastimento “Duca d’Aosta”.

Erano in condizioni pietose, esausti dal calvario che avevano dovuto passare in quei giorni tremendi, i vestiti strappati, le scarpe logore, le coperte di fortuna sulle spalle per coprirsi dal freddo, i volti pallidi e emaciati, il cuore spento dal dolore, la paura dell’ignoto da affrontare, lo stomaco vuoto da non so quanto tempo, la rassegnazione di chi è consapevole che si sta giocando il tutto per tutto.

Li sistemarono nelle stive come bestiame da macello, l’odore era insopportabile, non sembravano più esseri umani, si erano trasformati in qualcosa di indescrivibile.

Nelle ore più calde della giornata cercavano rifugio sul ponte della nave per respirare un po’ di aria pulita, fu’ in quell’occasione che il signor Barillari notò quei sette derelitti. Erano quelli messi peggio, ma la cosa che incuriosì di più l’uomo, era la grande dignità che leggeva in quei volti.

La dignità di chi ha sempre fatto un lavoro duro, di chi ha affrontato sempre la vita di petto senza compromessi. Ripensò a quando anni prima anche lui era partito senza una lira per inseguire il sogno di una vita diversa, a quello che aveva passato per raggiungere quel gradino così alto dal quale adesso guardava il mondo.

Si avvicinò a Donato e gli chiese:
“da dove venite?”
“da Monselice signore”
“perché siete partiti?”
“perché il fiume ci ha strappato ogni cosa signore, ci hanno detto che l’America è un paese ricco, c’è il lavoro, non abbiamo più niente da perdere”
“quanti figli hai?”
“cinque signore, tutti maschi”
“avete voglia di lavorare duro”
“si signore, non chiediamo altro che quello, lo abbiamo sempre fatto, sette giorni la settimana”
“quando arriviamo, fatevi trovare in questo posto sul ponte, venite via con me!”
“grazie signore, che Dio vi benedica”.

Si accese una piccola luce di speranza nel cuore di Donato, si guardavano sbigottiti tra loro increduli alla parole che avevano appena sentito. Non avevano la più pallida idea di quello che gli sarebbe accaduto, ma per loro non faceva differenza, si era aperta una porta e avevano il disperato bisogno di varcarla a qualsiasi costo.

All’arrivo a New York il signor Barillari caricò quelle sette anime su uno dei camion che li attendeva in porto, lui salì sull’auto personale e partirono per il Kansas.

Era lo stato che produceva grano in quantità tale da sfamare tutta l’America, quasi il 90% del suo territorio era dedicato alla coltivazione di questo bene primario.
L’uomo aveva creato un impero con la produzione del cereale, nel corso degli anni da semplice contadino era riuscito, con la sua intelligenza e lungimiranza, a inventare nuovi macchinari e sistemi produttivi che lo avevano portato alla vetta che aveva sempre sognato.

Fece sistemare la famiglia in una delle tante baracche dove risiedevano gli operai, era quasi un paese quella fattoria, c’era un via vai di mezzi, uomini e donne che ti lasciava senza fiato.

Donato si guardava intorno sbigottito, non riusciva a credere ai suoi occhi, forse quel posto era la sua salvezza.
Quella sera quando si misero seduti intorno al tavolo della baracca, per la prima volta dopo tanto tempo ebbero la sensazione di essere di nuovo a casa.

Si guardavano negli occhi profondi, scavati da troppi stenti, ma riuscivano a leggere nelle pupille un piccolo barlume di felicità. Chinarono il capo sul piatto di minestra, si presero per mano e recitarono il Padre Nostro.

Forse quella era una nuova vita.
Non mi piace decantare metafore sulle vicissitudini umane, ma anche io sono stato uno di quelli che ha preso la valigia a vent’anni ed è partito per il mondo.

La mia era sete di conoscere cose nuove, Civitavecchia mi stava stretta, mi soffocava.
Iniziare un nuovo cammino all’inizio spaventa, ma dopo ogni passo che percorri ti rendi conto che rimanere fermo sarebbe stata la fine…

Immagine tratta da Pixabay

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