Pastina all’uovo, quando fai di tutto per trattenere la vita

DI CARLO MINGIARDI

Ogni sentiero che percorri è un sentiero in meno da fare.
Questa è una cosa ineluttabile, però una volta inaspettatamente incontrai delle sabbie mobili e uscirne fuori fu una fatica immensa.

Ho pensato molto se scrivere questo pezzo di vita, l’ho sempre tenuto ai margini dei miei pensieri perché è stato senza dubbio quello più difficile da affrontare. Credo che sia però doveroso affrontare questo capitolo, lo devo a una persona, a mia madre.

Era parecchio tempo che soffriva continuamente di mal di stomaco. In quel periodo stavamo tutti dietro a mio padre che stava combattendo con un cancro al colon e lei rimandava continuamente ogni tipo di controllo.

Finalmente riuscii a convincerla e portarla a Firenze dal professor Toscani, un luminare nel suo campo. Durante la visita il dottore mi guardò di nascosto da mia mamma, uno sguardo inequivocabile, capii tutto immediatamente.
La sera stessa con una scusa uscii da casa di mia zia Rosetta e gli telefonai.
“Signor Mingiardi non voglio anticipare i tempi, aspettiamo i risultati della tac, ma credo di avere giù un quadro abbastanza chiaro della situazione”.

Rimasi in macchina a osservare la lunga fila di lampioni mentre scendeva una pioggia fine e fastidiosa.
Per motivi di lavoro dovetti rientrare in sede. Alla seconda visita la accompagnò mio cugino Claudio, siamo cresciuti insieme.
Quando mia madre mi chiamò il suo tono di voce era calmo, sereno:
“Carlè mi ha detto che ho un tumore, ma adesso ci armiamo di buona volontà e lo curiamo”.

Mamma era una donna semplice, non aveva finito neanche le elementari, il suo modo di ragionare era quello delle donne di campagna, non conosceva certi tecnicismi della vita.
Mio padre nel frattempo aveva vinto la sua battaglia, iniziava a stare meglio anche se viveva con una stomia, il sacchetto che gli permetteva di fare i suoi bisogni, perché gli avevano asportato una porzione di intestino.

Io e mio fratello facevamo la spola con Firenze dove mamma era ricoverata all’ospedale di Careggi, sembravamo delle palline da flipper impazzite, avanti e indietro a turno tutte le settimane. Eravamo consapevoli che le speranze erano poche ma non ci davamo per vinti.
Le cure andavano avanti senza risultati apprezzabili, fu allora che mia cugina Serenella riuscì a ottenere un contatto con un professore del Centro Tumori di Milano, partimmo immediatamente.

Lì prendemmo un appartamento in affitto per potergli rimanere vicino a turno con mio padre e mio fratello. Le giornate passavano inesorabili, l’intervento che avrebbe dovuto subire era uno di quelli “al limite”, alla fine decisero che non aveva il fisico per poterlo affrontare e la dimisero.

Lei mi ripeteva spesso:
“Carlè voi mi state guarendo. Mi portate sempre da quelli più bravi…”
Quelle parole mi rimbalzavano nella testa giorno e notte, dovevo provare qualsiasi cosa, non dovevo lasciare niente di intentato.
In quel periodo uscì fuori su tutti i telegiornali la cura del professor Di Bella, le notizie che arrivavano erano confortanti, ma tutta Italia si era riversata con i viaggi della speranza a casa di quell’uomo.

Sapevamo che era quasi impossibile riuscire ad avere un appuntamento, però non perdemmo le speranze e tramite mia cugina Ida riuscimmo ad avere un contatto con un suo collaboratore di Ladispoli che curava il cancro con il suo protocollo.
Era una miscela di medicinali difficili da reperire sul mercato farmaceutico nazionale.

Ricordo che anche in quell’occasione girammo mari e monti fino a quando non riuscimmo ad ottenere tutto il piano terapeutico.

Si iniziava a vedere una debole luce in fondo al tunnel, mamma cominciava ad avere dei miglioramenti, ma fu solo un fuoco di paglia perché dopo un paio di mesi la situazione cominciò a precipitare nuovamente.
“Carlè me sa che questa volta non ce la faccio, guarda come mi sono ridotta, peserò quaranta chili…”
Lei era una donna di statura bassa ma molto corpulenta, era ridotta a pelle ed ossa, non mangiava praticamente più.

L’unica cosa che accettava era la pastina all’uovo, ma voleva che gliela preparassi io. Allora mi spiegava come fare: impastare uova e farina, poi con la macchinetta a manovella tirare la sfoglia, di seguito passarla per farla diventare fettuccina e per finire quando si era asciugata tritarla per benino con una bottiglia di vetro.

Ero diventato un esperto, lei era contenta perché riusciva a mandarla giù, io pregavo che ne mangiasse almeno mezzo piatto al giorno.
E’ strana la vita, da piccolo era lei che mi allattava al seno, adesso ero io che con la mia pastina all’uovo cercavo di mantenerla in vita.

Non lo nascondo pregavo, anche se sono ateo, un giorno andai perfino alla chiesetta della Madonnina di Civitavecchia che aveva lacrimato, lei era molto devota.
Quando entrai nella chiesa, vidi quella statuina bianca con gli occhi macchiati di sangue, mi inginocchiai e chiesi un miracolo per mamma.

Non mia ascoltò la madonna, forse era occupata con persone più meritevoli di me.
Una mattina ero sul lavoro, in negozio al mobilificio di Tarquinia, erano circa le undici, ebbi la certezza che dovevo correre a casa di mia madre. Quando arrivai papà mi disse che respirava male, tralascio i particolari. Con il tubicino dell’aspiratore cercavo di liberarle la gola per farla respirare meglio. Dopo un po’ se lo tolse dalla bocca e mi disse con un filo di voce:
“Carle’ basta…”
Allora le presi la sua piccola mano tra le mie e me la guardai, fino a quando chiuse gli occhi.

Immagine tratta da Pixabay

 

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