DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN
Paul Gauguin è un post-impressionista, movimento immediatamente successivo alla precedente rivoluzione, in cui l’autore si ritrova catapultato al pari dei colleghi Signac e Seurat, al fine di ricercare qualcosa di differente rispetto all’incipiente crisi.
L’artista francese rimane, particolarmente, influenzato dai poeti simbolisti, autori che utilizzano la musicalità dei versi, per esprimere il proprio mondo interiore in modo simbolico: la diffusa idea romantica di ritorno alla vita primitiva, all’epoca, affascina molti, ma Gauguin va oltre la dimensione prettamente immaginifica, di fatto abbandonando una carriera di agente di cambio, presumibilmente remunerativa, per trasferirsi in quel di Tahiti.
Dichiarando di fuggire dalla convenzioni, si pone alla ricerca di quella verità ottenibile solo attraverso il divenire una cosa sola con la natura: una commistione ideale in grado di trasmettere all’arte un sentimento nuovo di emozionale impulsività; la stessa che, attraverso l’ignoto, identificabile con le terre lontane, porterà all’Oriente di Ingres ed al Marocco di Delacroix, senza tralasciare la Carmen di Bizet e la Rapsodia spagnola di Debussy.
L’invito al viaggio, di Baudelaire, recepito, condiviso e amato.
Gauguin dipinge la Polinesia sotto due aspetti diversi: uno più delicato e naturale, in ossequio ad uno stile essenziale come quello primitivo, che lo stesso artista cerca di recuperare, in simbiosi con l’ambiente circostante, un altro, diverso, più emotivo, utilizzando il colore in modo espressivamente violento; uno stile essenziale, lontano da quello naturalistico, fondamentale contributo allo sviluppo dell’arte moderna, che Il seme degli Areoi, opera realizzata da Gauguin sul finire dell’Ottocento, fonde e congloba nella donna raffigurata, semplice e complessa al contempo.
Culture che si mescolano, al pari dei linguaggi amalgamati nelle riunioni delle minoranze linguistiche, in cui la fissile ieraticità della posa, derivata dalla cultura egizia, si sposa con la tecnica giapponese priva di ombre, per poi strutturarsi nella dimensione giavanese dei tipici bassorilievi.
Gauguin riunisce, nella medesima immagine, l’antropizzato fascino di una cultura congenialmente assimilata, dotandola di quei fattori atti a delinearne la profonda acquisizione.
Una comprensione tanto unica quanto rara, indipendente da fugaci fascinazioni di subdole mode passeggere, al contrario eternata nella ferma e rigida resa di un corpo severamente ligneo.
Nemmeno la figura femminile rappresentata si rivela casuale: l’artista coniuga la propria ideale presenza femminile – la realmente amata Tehura – alla mitica Vairumati mitologicamente congiunta al maschile dio del sole degli Areoi, misconosciuta etnia polinesiana, originati dall’unione tra la divinità e la più bella delle fanciulle.
Lo strano effetto di un disperato ricorso volto a ricordare la preziosa stirpe decurtata dal colonialismo, a recente e futura memoria di una situazione ormai compromessa, delle cui innegabili conseguenze Gauguin si riappropria in guisa di monito all’osservatore, in tal modo edotto delle deprecabili ripercussioni di un imperialismo irragionevolmente sconfinato.
L’opera è attualmente visibile in Austria, a Vienna, in seguito ad una collaborazione tra il Bank Austria Kunstforum e il museo dell’Albertina. Si tratta della prima importante monografica dedicata a Paul Gauguin nel Paese, dopo il 1960, e consente di ripercorrere gran parte del percorso artistico dell’autore; Daniela Jurman si occupa di questo inaspettato Gauguin in un articolo sulla rivista Arte del mese di ottobre…
Paul Gauguin (1848-1903), Il seme degli Areoi, 1892, olio su tela, 92.1×72.1 cm., New York – Moma
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