Pier della Vigna

DI ORNELLA SUCCO

Erano quasi le due del pomeriggio di un giorno di primavera del 1977 e, come consuetudine, stavo lavorando in una delle sale dell’Archivio di Stato di Torino riservate alla consultazione del pubblico.

La gestione del tempo era un aspetto fondamentale considerando che, negli anni 70, l’orario di apertura dell’archivio di Stato di Torino terminava improrogabilmente alle 14 ed io, che già lavoravo come insegnante elementare, riuscivo mediamente a dedicare al lavoro di archivio un’ora al giorno e nemmeno tutti i giorni.

C’erano addirittura giornate nelle quali, per non perdere tempo, appena uscita da lavorare mi recavo di corsa all’archivio di Stato e, non appena questo chiudeva, mi precipitavo all’archivio dell’Ordine Mauriziano dove giaceva l’altra metà dei documenti sui quali avrei basato la mia tesi di laurea sull’evoluzione del territorio e del paesaggio agrario del vercellese meridionale tra 12º e 13º secolo.

Immaginate dunque una ragazza di ventitré anni che alle 12:30 in punto saluta i suoi allievi in una scuola dell’estrema periferia torinese, si precipita al capolinea dell’autobus che la condurrà in centro, scende alla fermata più prossima all’Archivio di Stato, si precipita nella sala consultazione dove dà il cambio ad una collega di corso che le ha già fatto trovare sul tavolo il faldone delle “Scritture diverse” ovvero un’accozzaglia di documenti su pergamena, del tutto privi di un comune denominatore se non quello di essere tutti relativi all’abbazia cistercense di Santa Maria Lucedio.

Mi misi al lavoro e, subito dopo la trascrizione della lunga sentenza di un giudice di Ivrea che assolveva il monastero dal pagamento di un pedaggio ad alcuni proprietari terrieri di Settimo per il transito verso i mulini situati nei loro territori, fu con vero sollievo che estrassi dal faldone il documento successivo: una pergamena rettangolare che recava in alto il sigillo imperiale e si annunciava infatti come un privilegio concesso all’abate ed ai monaci di Lucedio da Federico “per grazia di Dio imperatore romano, sempre Augusto, re di Gerusalemme e della Sicilia”.

Si trattava, insomma, di un privilegio concesso da Federico II di Svevia che concedeva al monastero l’esenzione dal versamento dell’esazione terziaria “generalmente imposta alle singole chiese lombarde”.

Come in tutti i documenti usciti dalla cancelleria imperiale, lo stile era conciso ed essenziale, la grafia nitida e leggibile, la pergamena di buona qualità e quindi ancora in discreto stato di conservazione: non potevo sperare in niente di meglio per completare proficuamente il mio lavoro e pertanto, pergamena a sinistra e bloc-notes e matita appoggiati sulla destra, procedevo con cautela ma con soddisfacente velocità a trascrivere il contenuto del documento.

Ero praticamente giunta al termine della trascrizione, alle poche righe nelle quali veniva apposto un “signum tabellionis” ovvero il segno che i notai apponevano, prima della loro sottoscrizione, a garanzia di autenticità del documento stesso.

Quello che lessi subito dopo bloccò per alcuni istanti l’automatismo con il quale la mano destra trascriveva quel che i miei occhi avevano letto nella pergamena che tenevo con la sinistra: “Datum apud Casale Sancti Evasii per manus magistri Petri de Vinea, imperialis aule protonotarii …” ovvero “datato in Casale (Monferrato) in Sant’Evasio (cattedrale di Casale) per mano del maestro Pietro (Pier) della Vigna protonotario dell’aula imperiale …”

Passai velocemente alle righe successive: il documento era datato 1248 nel mese di settembre … Pier della Vigna, accusato di corruzione, sarebbe stato arrestato a Cremona pochi mesi dopo, all’inizio del 1249 e, dopo essere stato accecato sulla pubblica piazza a Pontremoli, si sarebbe ucciso sbattendo ripetute volte la testa contro il muro della propria cella.

In una frazione di secondo ripensai ai versi che Dante gli aveva dedicato nel XIII canto dell’Inferno: avevo tra le mani un documento redatto dalla mano di colui “che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico”, un documento nel quale, inconsapevole della disgrazia che già incombeva su di lui, egli ostentava con orgoglio la sua carica di “protonotario” ovvero superiore di tutti i notai e unico custode dei sigilli imperiali.

Improvvisamente presi consapevolezza che la Storia, la disciplina che più di ogni altra mi aveva sempre affascinata e incuriosita, non era fatta solo di successioni di epoche, scoperte, conflitti, battaglie e trattati di pace.

La Storia era fatta soprattutto di uomini e del loro faticoso procedere attraverso il tempo cercando di realizzare ideali, migliorare le proprie condizioni di vita, affermare sé stessi o il proprio potere, combattere per ciò in cui si crede, ecc.

Per quanto riguarda il caso specifico confesso che non sono assolutamente in grado di dire se Pier della Vigna fosse stato incarcerato giustamente o ingiustamente, di una cosa però sono certa: quella piccola pergamena aveva allargato la mia prospettiva sulla Storia e da quel momento in poi mi sorpresi spesso a chiedermi che persone fossero quelle i cui nomi venivano elencati nei documenti antichi: come vivevano, cosa desideravano, quali ideali coltivavano.

Così quando, nel corso della mia carriera, incontravo per la prima volta una classe e spiegavo loro quali erano gli obiettivi del nostro percorso disciplinare in Storia, mi ritrovavo a pensare a Pier della Vigna e invitavo i miei ragazzi ad ascoltare la canzone di De Gregori:
“la storia entra dentro le stanze, le brucia
la storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto
da perdere.”

Immagine tratta dal web

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