Piero Gilardi, Girasoli

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

L’ecologia e il poliuretano espanso; la Natura e l’artificialità a servizio del medesimo, nobile scopo, per il quale il mezzo mantiene la propria preponderanza utilitaristica senza pretendere d’imporsi.

La sensibilizzazione verso l’ambiente passa attraverso la proposizione di un messaggio ecologista non vincolato, in cui l’eventuale oggetto artefatto assume le concrete sembianze di un impegno tangibile.

Popolare, pop, esagerato e diretto: Piero Gilardi, muovendo dalle premesse di una iconica affermazione determinata dallo shock della Biennale del 1964, indubbiamente rimasto nella storia, assimila, per un’ottima causa, il significato di un’esistenza di giorno in giorno letteralmente dominata da immagini, prodotti di consumo e slogan pubblicitari, che semplicemente appartiene al quotidiano vissuto di tutti noi, rieditandola in chiave ambientalista, orgogliosamente verde nel significato primordiale del termine.

Al di là di ipocrite transizioni ecologiche, più attinenti agli aspetti economici che a quelli vessillari inopportunamente sbandierati, lo scultore torinese asserve la propria arte a ciò che realmente dovrebbe essere: se è vero che tutti i giorni occorre accettare tale contesto sia come dimensione irrinunciabile della nostra vita, sia in qualità del condizionamento che tutto ciò determina sulla nostra visione del mondo, inevitabilmente forgiando una mentalità condizionatamente consumistica, è altrettanto vero che tale mentalità può ritrovarsi opportunamente modificata nella rimodulazione di una dimensione pragmaticamente rivista e offerta.

Quel qualcosa di popolare – pop – che ci appartiene, e permea a tal punto ogni nostro istante da diventarne parte integrante, talvolta nemmeno percepita, ma scontata, e proprio per questo motivo in diritto di essere sottolineato e valorizzato, come sostengono gli esponenti della Pop Art, riletto attraverso la preziosità di un animo sensibile, che riproduce fedelmente e altrettanto fedelmente connota di sfrontata artificiosità.

E così si percepisce la differenza e si prende coscienza del tutto, in un contesto che sembra rievocare quel passaggio di Lucio Dalla in cui si prende atto dell’eccezionalità dell’impresa di essere normali, e sceglie di realizzare tramite la più sfacciata denuncia.

Ciò che sembra reale piega la propria autenticità ad una dannata artificiosità, in cui il composto chimico sostituisce l’elemento naturale e subdolamente ne trae i vantaggi.
Il lupo si traveste da agnello: blandisce e inganna. E convince, poiché quello che si vede è troppo bello per essere rinunciato, e il desiderio si sostituisce alla realtà.

Edipica concezione di capricciosa tendenza, secondo quanto desidero sono, e devo essere accontentato. E non importa se sotto il tappeto verde e i soffici petali gialli alberga un triste plastico in salsa Beetlejuce. Ciò che appare, conta, senza ulteriori mezzi termini, e relegando la primitiva presa di coscienza ad una trascurabile quisquilia di ignorante solerzia.

Il merito di essere mostrato in una bellezza inesistente e differente, che propone gli oggetti a noi vicini in qualità di prodotti degni di catalizzare la nostra concentrazione, risultandone notati ed ammirati.

Se compito dell’artista, secondo la Pop Art, non è rivelare una dimensione individuale, al contrario constatarla ed esibirla, ed è il motivo per cui l’artista decide di riscattare le immagini di massa ai limiti di una sincera banalità, che comunque sperimenta e trova una sua eleganza in una visione sfrontatamente trionfante, volontà di Gilardi è piegarne la straordinaria efficacia realizzativa e visiva, sfruttandone la dimensione iperrealista che assume a coscienziosa redenzione di rispondente coscienza.

Che cos’è la Pop Art? Servirsi dell’arte commerciale, credo’, così risponde Roy Liechtenstein in un’intervista del 1963 che fornisce probabilmente l’unica chiave per comprenderlo, secondo quel così è, ma non se vi pare; Gilardi prosegue oltrepassando l’ideologia: elevando la banalità a degna essenzialità.

Del resto approfittando, come Matisse e decine di altri, di un fiore come il girasole, da sempre dominante l’immaginario degli artisti, avvenente nel proprio dominio campestre come ben conosce chi si sia trovato, almeno una volta, al cospetto di un campo di girasoli in fiore, che ogni volta insiste nell’affermare quelle origini mitologiche che da sempre ne costituiscono storia e immagine: dall’amore non corrisposto tra Clizia e Apollo – Clizia si accontentava di osservare il carro del dio del Sole, limitandosi a seguire con lo sguardo quell’oggetto del desiderio che inizialmente l’aveva assecondata per poi laconicamente abbandonarla, e venne quindi tramutata nel suddetto fiore – alle più materiali varianti delle entusiastiche sensazioni di Van Gogh, quasi sempre destinate ad immancabili disillusioni, passando per le visionarie interpretazioni di Egon Schiele, il quale preferiva soffermarsi sulla loro caducità, mentre Klimt indugiava sulla potenza decorativa di una decorazione prorompente.

Un legame talmente emblematico, quello tra il fiore in questione e l’arte, che quella di Gilardi potrebbe esplicarne l’ennesima declinazione, ma che ne evita la decadenza cognitiva grazie alla delicatezza emotiva di un nucleo distinto e d’istinto…

Piero Gilardi (1942-2023), Girasoli, 1967, poliuretano espanso, 60×60 cm.
Immagine dal periodico Arte, agosto 2024

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