Possa essere una Pasqua di Unità, Conoscenza e Integrazione. E, su tutto, Verità

di Giovanna Mulas

Mi trovavo con Gabriel in Egitto per una serie di incontri con gli studenti di lingua italiana del Cairo, organizzati dalla mia traduttrice all’egiziano, la Prof.ssa Marwa Tantawy, sorella di anima e cammini, presso l’Istituto Italiano di Cultura del Cairo. Studenti come spugne: assetati di Cultura e Arte, e insegnanti di encomiabile etica.
Dopo aver pranzato assieme ai rappresentanti delle autorità locali in una lussuosa nave adibita a ristorante, adagiata sulle chete acque del Nilo, ci venne proposta una visita alle piramidi di Giza.

Ciò che un po’ tutti ammiriamo e già da bambini, dinanzi ai capitoli che hanno aperto e aprono un mondo dentro il mondo. Basta così poco, in fondo, per rompere le barriere di quel pregiudizio o forse la superbia che, da sempre, accompagnano noi europei: tre ore di un aereo nel mese di novembre e ti trovi, a dispetto dello spazio e di un tempo soltanto nostro, nel deserto; oltre trenta gradi all’ombra, frastornato dall’oro e la meraviglia e il rispetto timoroso dovuto alla Storia, Genti bardate di bianco che ti accolgono agl’incroci con spianate di pane etiope e the.
Per la visita salimmo in due su di un vecchio carro trainato da un cavallo e guidato da un beduino, lungo tutto il sentiero battuto, grezzo, che è vena che taglia l’altopiano di Giza, nel deserto occidentale egiziano. Laddove vento e cocci bollono, stordiscono, e gli occhi bruciano…mi lacrimavano e non sapevo se per l’emozione, la gola arsa o il respiro affannoso; o per l’occhio mio che cercava un appiglio, un unico punto di riferimento…un confine anche solo indefinito ma certo, conosciuto, in quell’estensione immensa di sabbia che ti sbanda, ti sconvolge persino ed è mare che avrebbe potuto ingollarci tutti e in un istante, se soltanto un dio burlone avesse voluto scoperchiare, chessò, una voragine improvvisa, un turbinio inaspettato tra dune, tende e dromedari.
M’aveva rammentato l’istante in cui, per la prima volta, avevo disceso i cinque gradini del Jet che da Bogotà ci aveva portati nella mia amata Amazzonia, a Leticia, al confine della pericolosa Triple Frontera: per “Il primo reading della storia”, ci avevano detto dal Festival Premio Nobel, godendone come se avesse toccato a loro il farlo, il reading, tra autoctoni e soldati in mimetica, armati fino ai denti e non troppo avvezzi al poetare.
Ricordo lo stesso respiro affannoso: boccheggiavo, ero un pesce di acqua dolce trasportato in un mare sconosciuto nonostante ‘studiato’, mi dibattevo in imprevisti accumuli di sale impazzita ma godendo
-contemporaneamente e mio malgrado- dello stridio di pappagalli e tucani, dei rosa verde dei colibrì come farfalle, che ti si parano dinnanzi al cammino. Una Natura senza pari che solo certa miseria umana è riuscita, attraverso gli anni, ad intaccare.
In realtà il sale che mi pungeva occhi e gola erano le file di caserme una appresso all’altra appena superato l’aeroporto, e i soldati fuori, statici o in esercitazione, occhio apparentemente distratto ma vigile quanto, so, l’olfatto, su tutti i nuovi arrivi in loco.
Dalla parte opposta della strada, gli indigeni curvi e seminudi, piccoli e magri, pelle bruciata nonostante i cappelli a visiera targati Coca Cola; quel simbolo del padrone stonato col resto,
piedi nudi e immersi nel fango del Rio, coi bambini appesi al collo e una banana divisa coi mosquitos.
Sensazione, quella del sale, che non mi aveva abbandonata fino al giorno della ripartenza dal povero aeroporto di El Cobo.
Ora e Qui, a Giza, il deserto era un oceano che in quel momento era soltanto mio, a dispetto della confusione di carri e turisti, cameraman e giornalisti, zone di scavo e studiosi al lavoro.
Sarebbe stato soltanto mio fino a quando non ne avessi saputo di nuovo dall’imposto dai testi scolastici comunque depurati, o dalla TV di stato.
Finalmente mio ciò che, fino a quel momento, m’era apparso soltanto nei sogni, filtrato da terzi.
Il beduino parlava, ci illustrava l’attorno ridendo da solo ma la mia attenzione era stata catturata dal cavallo bruno lì, a trainare il nostro carro. Per la stanchezza e l’eccessiva magrezza, le zampe sussultavano sul sentiero, sbuffava, sputando.
Lo feci notare a Gabriel poi parlai al beduino, chiedendogli di farci scendere…non potevo vedere il cavallo così distrutto per portare due imbecilli attenti alle piramidi che, comunque, da lì non si sarebbero mosse, pure se ammirate a piedi.
Scendiamo, ma signori avete pagato, non si preoccupi non ha importanza, siete più comodi, basta, no!.
Carezzai il cavallo, piantata in mezzo al sentiero polveroso che in quel momento interpretai come la vita, e piansi in silenzio.
Si narra che Nietzsche ebbe il definitivo collasso mentale a Torino quando, uscendo di casa, vide un cocchiere frustare violentemente il suo cavallo. Sconvolto dalla ferocia gratuita, il filosofo corse a fermare l’uomo e, tra le lacrime, abbracciò, baciò la povera bestia maltrattata.
Avevo appreso questo aneddoto dai miei testi più amati, almeno una ventina di anni prima del viaggio in Egitto;
e nel lungo periodo di passaggio tra l’adolescenza e la maturità ne avevo sempre sorriso con tenerezza,
fino a rimuoverlo dalla memoria.
Mi tornò in mente in quel momento, a Giza,
e Qui ed Ora, nel mio studio, ci penso ancora e d’identico dolore.
Un cavallo stanco e sfruttato ma dalla mente potente, lucidissima come mai prima: è costretto a camminare sul sale incespicando, scivolando, è impotente. E le mosche morsicano, le zanzare punzecchiano, il calore è insopportabile.
Attorno, ho l’apparente bellezza di ciò che è stato e Quanti -sempre troppi- hanno fatto e son morti, per farlo.
E il nulla, ovvero un qualsiasi imbecille monta sul carro e lo guida sbandando, fors’anche sbagliando il sentiero, maltrattando chi lo trasporta,
violentandolo persino.
Quanto resisterà il cavallo, senz’acqua e riposo?.
Un Nulla che gode del carro della storia e pretende -prepotente e superbo come solo un nichilista sa e può-, di essere la voce del cavallo stesso; un dogma uguale al precedente ma che incanta come nuovo e che, se potesse, distruggerebbe la stessa storia che l’ha plasmato, soltanto pur di arrivare A. Come di fatto sta avvenendo.
Che la Pasqua che giunge sia di vera rinascita per ognuno di noi, amici e fratelli di sentiero impervio: che la Ragione ci guidi verso una autentica resurrezione dell’umanità.
Unità, conoscenza e integrazione e, su tutto, Verità.
Auguri di cuore.

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