Quando sei disoccupato, ovvero sei ‘trendy’

di Daniela Marras

Quando sei disoccupato, ovvero sei ‘trendy’

Ebbene sì, sono anch’io alla moda, sono anch’io trendy, nel senso che sono anch’io inserita in un “andamento”, un “trend” appunto, dei tempi nostri, sono anch’io “di tendenza”.

E cosa ti rende figlio di questi tempi? Tante cose immagino ma, negli ultimi sette, otto anni, ciò che ti caratterizza maggiormente è l’avere problemi di occupazione, sì proprio quello, essere disoccupati per via della “crisi”.

Non che sia una novità in certe parti del nostro Paese, come la Sardegna, terra da cui provengo, in cui la “crisi” e il “problema dell’occupazione” sono pressoché congeniti: ci sono ora come c’erano venti anni fa, quando mi sono laureata e mi son trovata a dover cercare un’occupazione, appunto.

“Lavoro” quindi, principio cardine posto a fondamento della e dalla nostra Costituzione: si vedano l’art.1, primo comma (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), l’art.4, primo comma (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” cui fa da contraltare il secondo comma “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprio possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), e gli artt. 35 e seguenti, in particolare il primo comma dell’art.35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), il primo comma dell’art.36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), il primo e il secondo comma dell’art.38 (“1. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. 2. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”).

Non mi addentro in commenti di tipo giuridico-sociale né su quanto sia difficile, non immediato, altamente burocratico e anche penoso accedere ai “mezzi adeguati alle… esigenze di vita in caso di… disoccupazione involontaria”: ci si trova spesso davanti a veri e propri muri di gomma, tra persone e uffici più o meno incompetenti e sonnacchiosi, per dirlo con belle parole…

Ma cosa sperimenta, nella vita di tutti i giorni, chi si trova ad essere disoccupato involontario?
Chi si trova ad essere disoccupato viene quasi ad essere “segnato”, mi sento di dire, contraddistinto da un “segno” appunto, non con lo scopo di essere protetto come nel caso di Caino, ma con lo scopo piuttosto di essere indicato come soggetto poco desiderabile, che crea imbarazzo e magari da evitare.

Capita per esempio che chi si trovi dapprima ad elogiarti per un tuo scritto (nel mio caso, una “bella signora”, chiamiamola così), poi, dopo aver saputo che sei stato licenziato per via della crisi e sei alla ricerca di una nuova occupazione, si trovi quasi a voler rimangiare le proprie parole, a trattarti con sufficienza e a negarsi, fino a toglierti il saluto, “non si sa mai questa cosa voglia…”.

Capita poi che qualcuno si mostri volenteroso e ti prometta di chiamarti al telefono… cosa che poi eviterà accuratamente di fare, “tanto si sa questa cosa vuole…”.

Capita poi addirittura di diventare “invisibili”, non esagero: sì, capita che persone con cui avevi a che fare più o meno di frequente nel mondo del lavoro e che incontri per strada quasi faccia a faccia, passino senza degnarti di un saluto ma anzi coprendosi di un velo di voluta e calcolata indifferenza.

Magari non tutti, ma capita… “non si sa mai”.

Insomma, per chi il lavoro ce l’ha, un disoccupato è da evitare, è quasi un appestato.

Siamo noi, giovani e, come nel mio caso, meno giovani, i nuovi paria della nostra società, per alcuni almeno, non esito a dirlo.

A tal proposito, c’è anche chi ha osservato che proprio l’art.1 sopra riportato della nostra Costituzione, possa diventare invece che clausola di salvaguardia, principio di esclusione ed emarginazione: se il lavoro non c’è, se i cittadini rimasti senza, non per loro scelta, non vengono di fatto tutelati, cosa fonda la nostra società?

Ci si potrebbe poi soffermare, tanto per sorridere, sulla varietà degli annunci di lavoro, da chi ti offre un “compenso sobrio” a chi cerca collaboratrici di bella presenza e disponibili cui viene chiesto di inviare il curriculum con “foto eloquenti”.

Ma, tant’è, capita anche di incontrare qualcuno che sta peggio di te, che voglia di sorridere non ne ha, qualcuno che un datore di lavoro che nemmeno conosceva, tanto stava in alto, ha dichiarato in esubero e gli ha cambiato la vita, qualcuno con due figlie a carico e che cade preda della depressione e non sai come incoraggiare. “Non che sia meglio essere licenziati da un capo che invece conoscevi e ti conosceva…”, penso.

“Tu come fai?”, ti chiede. E come faccio? Ho fatto la formica mentre lavoravo e, non so neanch’io come, ho messo da parte un po’ di soldi (già, soldi) che dovevano essere destinati che ne so, alla vecchiaia si dice di solito. E ora, ora che sono sopraggiunti tempi difficili, è grazie a questi risparmi – che vedi calare nel tuo conto ogni giorno mentre non entra niente – che sono in grado di mantenermi e non sentirmi con l’acqua alla gola.

E soprattutto, con la speranza che qualcosa cambi in meglio, anche se, si sa, “chi visse sperando morì non si può dire”. Ma siccome così si muore tutti, allora meglio sperare, sperare sempre. E dal momento che, a proposito di speranza, la penso diversamente da Nietzsche, ho deciso di scrivere queste righe.

Per chi al momento non ricordasse, Nietzsche, a differenza degli autori di Pollon (mi si consenta questa citazione poco erudita), sosteneva che la speranza è una disgrazia… Non per niente stava nel vaso di Pandora… (E sarebbe stato impossibile giungere al lieto fine in Pollon, che diventa Dea della Speranza, se gli autori si fossero attenuti all’interpretazione nietzschiana. Evidentemente Nietzsche non è stato ritenuto educativo).

Ma, visto che il noto detto popolare in tema di speranza ben può adattarsi a tante attività cui uno può dedicarsi in vita… ecco, figlia di Pollon più che di Nietzsche, mi sento di augurare a chi, come me, si trovi in questa situazione non facile, di trovare un motivo per sorridere sempre, siano i genitori, i familiari, i figli, i buoni amici, le proprie passioni, i propri valori, le proprie ragioni di Vita!
Pavia, 13 ottobre 2014 

 

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