Quando si dice destino…

DI ORNELLA SUCCO

Amelia tornava da una vacanza fuori dal mondo: cinque giorni di sci “fuori pista” per staccare da una situazione piuttosto opprimente tanto dal punto di vista lavorativo quanto da quello personale.

La rottura con Émile era avvenuta tre mesi prima ed era stata difficile da superare ma si era resa conto che non si può lasciare che un rapporto si trascini nel tempo con la sola forza dell’inerzia.

Si era resa conto che, nella vita di Émile, lei non era altro che una specie di accessorio, per carità un accessorio da trattare con riguardo ma niente di più, non l’avrebbe mai presa in considerazione né come medico né come compagna di vita.

Infatti aveva fatto domanda per un costoso master negli Stati Uniti senza neppure metterla a parte delle proprie intenzioni. Un sabato l’aveva portata a cena a casa dei suoi genitori nel Vallese e durante la cena, come se fosse la cosa più naturale del mondo, aveva detto alla madre che sarebbe partito per Houston alla fine del mese.

Davanti alla sua reazione sorpresa l’unico commento di lui era stato che “il contratto di affitto del nostro appartamento scade a fine agosto, dunque hai almeno sette mesi di tempo per valutare se restare lì o cercare un appartamento più piccolo…”

Era rimasta senza parole e la mattina dopo, trovata una scusa con i genitori di lui ed era rientrata velocemente a Losanna: il tempo di fare la valigia e aveva lasciato l’appartamento mettendo bene in vista sul tavolo il proprio mazzo di chiavi. Aveva chiesto a una collega di sostituirla per un giorno in ospedale ed era tornata alla pensioncina dove alloggiava fino a due anni prima, quando ancora si doveva laureare.

Lui l’aveva cercata per qualche giorno ma, con una scusa o con un’altra, era sempre riuscita ad evitare di incontrarlo, tanto mancavano solo dieci giorni alla sua partenza e dopo febbraio il problema non si sarebbe più posto.

Con il passare delle settimane il sommarsi di quel disastro sentimentale ad alcune difficoltà insorte nel reparto ospedaliero dove lavorava la convinsero che aveva bisogno di “staccare la spina” almeno per qualche giorno e così, la settimana prima di Pasqua, aveva scelto di fare quella vacanza di gruppo con gli sci.

Si trattava di una specie di anello da percorrere a tappe partendo da una cittadina austriaca: ogni pomeriggio era previsto l’arrivo ad un rifugio o ad un piccolo hotel dove passare la notte e il giorno successivo si ripartiva per la meta successiva.

Al pomeriggio del quinto giorno sarebbero ritornati al punto di partenza e da lì avrebbe preso il treno per andare direttamente a casa dei suoi genitori nel Canton Ticino.

Dopo quattro giorni consecutivi passati praticamente con gli sci ai piedi, scoprire che nell’ultimo rifugio non era disponibile l’acqua calda era stato un piccolo dramma, tuttavia lo aveva presto risolto decidendo di “lavarsi come un gatto” ovvero una sciacquata veloce alle mani al volto, qualche minuto in più dedicato allo spazzolino da denti e via nel sacco a pelo: l’indomani sera nella casa paterna si sarebbe concessa la calda, lunga e vaporosa doccia di tutta la sua vita.

L’ultimo tratto del percorso sciistico pareva quasi il tracciato di una gara di fondo: meno impegnativo di quelli affrontati nei giorni precedenti dal punto di vista delle difficoltà ma sicuramente più faticoso. Pertanto arrivò alla piccola stazione austriaca appena in tempo per acquistare alcune riviste da leggere in treno: all’edicola non avevano pubblicazioni in Italiano e così decise di acquistare due riviste francesi che infilò alla bell’e meglio nello zaino, già di per sé stracolmo, che aveva in spalla.

Quando finalmente arrivò il treno sperò ardentemente di trovare uno scompartimento poco affollato perché si rendeva conto che la sudata dell’ultima tappa, unita a quella del giorno precedente, non conferivano certo alla sua persona quel profumo di fresco e pulito nel quale amava riconoscere se stessa.

Ebbe fortuna: il treno era quasi deserto, trovò uno scompartimento vuoto, sistemò lo zaino sulla reticella e poi chiuse la porta e anche le tendine di stoffa nella speranza che, passando dal corridoio, nessuno volesse decidere di fare il viaggio con lei.

Invece, appena passato il confine con la Svizzera, qualcuno aprì la porta dello scompartimento e una giovane coppia che parlava tedesco entrò ridendo ad alta voce. Il ragazzo, alto e bruno di capelli, sistemò sulle reticelle ancora libere due valigie ed un borsone sportivo; la ragazza, una biondina esile accuratamente truccata e molto elegante, arricciò lievemente il naso poi si sedette nell’angolo più vicino alla porta dello scompartimento che ebbe cura di spalancare completamente.

Il treno ripartì, Amelia prese le sue riviste francesi e si immerse nella lettura di tutti gli articoli, dalle sfilate di moda fino agli oroscopi per la settimana in corso, nel frattempo gli altri due passeggeri parlavano e parlavano, ridevano e forse flirtavano ma lei si era imposta di ignorare del tutto la loro presenza come se non capisse nulla di quello che si dicevano anche se, in realtà, riusciva a seguire abbastanza bene i loro discorsi.

A un certo punto del percorso la ragazza guardò l’orologio e disse qualcosa tipo: “Quasi arrivata, allora ci vediamo dopo Pasqua…”. Lui si alzò e tiro giù dalla reticella la più piccola delle due valigie, si scambiarono due baci sulle guance e lei si avviò verso le porte di discesa.

Amelia rimase sola con l’altro viaggiatore, il treno si fermava ad ogni piccola stazione ma nessun altro venne a sedersi nel loro scompartimento e, lei immersa nella lettura delle sue riviste, lui in quella di un giornale sportivo, continuarono il viaggio per più di un’ora e mezza senza mai rivolgersi la parola.

Quando ormai si stavano avvicinando le stazioni verso le quali erano diretti accade qualcosa di imprevisto: nel corridoio il capotreno inciampò in qualcosa che era stato lasciato proprio in mezzo al passaggio; nel disappunto della temporanea perdita di equilibrio e di compostezza, gli scappò un’imprecazione colossale in dialetto ticinese.

Amelia ed il ragazzo si guardarono per un breve istante negli occhi e scoppiarono a ridere simultaneamente. Subito dopo si guardarono nuovamente e capirono di aver capito, ovvero seppero di parlare entrambi lo stesso dialetto del capotreno… E risero nuovamente al pensiero di essere rimasti in silenzio per tanto tempo pensando l’uno dell’altra che potesse parlare solamente “un’altra lingua”.

Dieci minuti separavano Amelia dalla sua stazione di arrivo ma riuscirono a dirsi abbastanza cose per ritrovarsi nelle vacanze di Pasqua e poi nella vita. Amelia e Alessio (nomi di fantasia ma persone reali) si sposarono due anni dopo, hanno avuto due figlie e una vita movimentata ma sicuramente felice . Quando si dice … il destino.

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