Quel fuoco primordiale…

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Quanti i poeti o pseudo poeti, sui social e giornali online!
Gruppi che accolgono e raccolgono giovani e maturi scrittori, e non solo dilettanti, alternano testi editi o in attesa di qualche editore che li accolga. (Nel caso poi di editori che si propongono per pubblicare opere di voci emergenti ci sarebbe da fare un discorso a parte).

Certo è che la poesia è davvero un tipo di scrittura che esercita un’attrazione e una reazione avversa nel contempo. Ma perché? Forse perché le parole seguono un ordine compositivo anarchico, rispetto all’andamento lineare del logos cui si è addomesticati fin da bambini quando si ascoltano parlare ” i grandi” e poi quando si impara a scrivere.

E’ facile pertanto da bambini essere portati ad odiare il compito dell’imparare a memoria un testo poetico se non si è stati educati da subito a muovere le parole divertendosi e muovendo il corpo, se non ci sono stati insegnanti capaci di sentire come impegno etico ed educativo l’inserire nei propri piani di lavoro la poesia.

Poesia è momento costruttivo per la formazione ludico- introspettiva dei piccoli, capace di potenziare l’ascolto di sé, di attivare la scoperta della voce sfumata in una gamma di sensazioni, emozioni, riflessioni.
Un ricordo di quando avevo nove anni richiama la mia sensazione di avversione all’imparare a memoria una poesia di Diego Valeri, dal titolo “Venezia”.

Poiché avvertivo la fatica di creare associazioni di parole che mi rendessero più agevole il compito assegnato dalla maestra, fui colta da disperazione. Il nonno materno intervenne a quel punto con una spiegazione rapida del testo e soprattutto, dopo, invitandomi a leggere il testo di Valeri camminando per la stanza. Ebbene, magia… Scoprii che muovendo il corpo le parole del poeta fluivano in me come acqua. Esiste quindi un modo, da piccoli, divertendosi, per potenziare la memoria.

C’è anche chi deliberatamente annuncia di provare un sentimento di avversione nei confronti della poesia per un desiderio sotteso di dominare la parola che sfugge a una totale comprensione; la parola poetica allude, lambisce un altrove, un esserci che si lascia intuire nel suo non esserci. In Eugenio Montale la poesia delle “Occasioni” (1939) , ad esempio, mette a fuoco la difficoltà esistenziale che si rivela nel rapporto drammatico tra l’uomo e il mondo e presenta il tema della trasfigurazione della speranza in una serie di figure femminili assenti, da Clizia a Dora Markus.

In uno dei testi della raccolta “Le Occasioni”, dal titolo “ La casa dei doganieri”, il poeta si rivolge ad un “tu” femminile. Già dall’incipit «Tu non ricordi…» ripetuto per tre volte nel corso della poesia, Montale si rivolge ad Anna degli Uberti, che in altri poesia assume il nome di Annetta o Arletta. Anna è l’assente, la figura femminile di cui non restano che i segni di un passaggio, è l’esistenza che riemerge solo nel ricordo personale, il suo disperdersi, dove si smarrisce, quindi, l’identità personale del poeta, nello snodarsi del tempo.

Spesso si sente parlare della Morte della Poesia. Leggo che per Ben Lerner (poeta, narratore, saggista e critico) “La Morte della Poesia viene invocata per esorcizzare l’atrofizzazione delle nostre capacità immaginifiche”
Non saremmo pertanto più in grado di accedere al mondo dell’indecifrabile perché non abbiamo più accesso a un codice che fin da bambini era in noi istintivamente e che alimentavamo con desiderio nei momenti ludici anche non condivisi. “Mi raccontavo tutto il raccontabile di bambina nello spazio tra il caminetto e un muro divisorio tra tinello e cucina. Narravo storie cadenzate in ritmi di cantilene.

La voce dava corpo a personaggi e cose, incantesimi, sfide, divieti, lieto fine. E ascoltavo la lettura di storie per me bellissime dalla voce dei miei genitori, di sera, prima di andare a dormire. Erano storie di miti e racconti di autori di fiabe”. Questa ero io da piccola, in un racconto lasciato in un cassetto.

Riempivo anche i momenti della noia con parole dette sottovoce. Non avevo un tempo da dedicare a visioni altre, se non erano quelle oniriche. Certo, oggi viviamo in una giungla di proposte visive, offerte dal mondo della tecnologia; così universi pubblicitari, film, sceneggiati, giochi, videogiochi e tanto altro ancora rendono arduo costruirsi e alimentare il mondo incantato dell’immaginazione.

E che dire di una scrittura che sgorga di nel cuore del sonno da immagini tridimensionali, in spazi incerti, sovrapposti, misteriosi? Le parole si inanellano, creano felici contrappunti sonori, sono rivelatrici di un arcano depositato in ognuno di noi.

Mi è capitato di alzarmi a notte fonda e di scrivere parole che mi apparivano e si componevano in frasi; erano l’incipit di un testo. Mi sono detta col tempo che la poesia nata nei giorni successivi non era che l’eco di una dimensione personale lirica e primordiale.

Dice Ben Lerner, “La nostra capacità di scrivere poesie è in un certo senso la misura della nostra umanità”, poiché chi si cimenta in questa scrittura che si avvale di un linguaggio proprio, vive in una dimensione situata tra una necessità e un sentimento di mai appagamento.

Per me il poeta è un combattente, oscilla tra un imperativo categorico di svelamento “dell’altro mondo”, -come lo definiva Cristina Campo – e la durezza materica opposta dalla realtà storica che si pone quale limite con la sua forma da cui pure si deve attingere scrivendo poesia!

Il metro, la scelta compositiva che si compie per la strutturazione del genere letterario, preso fin qui in considerazione, l’attraversamento consapevole o no di figure retoriche a cui si ricorre per accedere al mondo sotterraneo segnano al contempo il limite e la soglia aperta all’illimitato che si trova oltre.

La poesia è odiosa? Poesia alta, irraggiungibile, aristocratica, distante, oppure terra terra, prosastica, mortificante della lingua del compositore e del fruitore.

La poesia, dice sempre Lerner, “è odiosa perché… esiste: i poeti ci ingannano perché auto-definendosi tali implicano che non esiste autenticità in poesia, solo uno spazio per l’autentico” per loro l’essenza stessa della parola, la ricerca della sua cifra identificativa.
Amare la poesia è recuperare il fuoco originario del canto, distante dal mondo rigido delle leggi e della logica, significa compiere un atto anarchico e magico allo stesso tempo, fissando la parola in suono, facendone riemergere il segreto e il senso profondo.

Può piacere o no la poesia, amare il fuoco oppure odiare chi protegge la sua luce vivissima di quel fuoco può essere occasione di ripensamento e riflessione su questo genere letterario.

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