Quel viaggio ad Amsterdam, terminato come non mi aspettavo

DI GIOVANNI BOGANI

 

Ed ecco un’altra cosa che non ti ho detto. Che ti si sarebbe spezzato il cuore.

Avevo diciassette anni. Avevo vinto, grazie a un tema, due settimane a Maastricht, insieme ad altri dieci ragazzi di tutta Europa.

Dopo quei quindici giorni, a giocare all’Europa e a fare un corso d’inglese gratis con mille ragazzi come me, con cui comunicavamo con i versi delle canzoni di Simon & Garfunkel, dovevo tornare in Italia.

Dovevo anche fare la maturità, gli orali, tre giorni dopo. E fu lì che feci la cazzata più grande: invece di andare a sud, verso l’Italia, andare a nord. Verso il resto del mondo.

Perché io volevo vedere com’era Amsterdam.

Presi il treno, meno di tre ore ed ero ad Amterdam. Con un borsone di plastica con scritto Addas e con una chitarra, senza custodia. Semplicemente la mia chitarra classica, tenuta alla vagabonda col manico sulla spalla.

Dalla stazione ferroviaria a Damstraat erano dieci minuti a piedi. Era bellissimo. C’era tutto il mondo, raccolto e mescolato in quelle strade. Io non l’avevo mai vista una cosa così bella. Tutti andavano con le biciclette, molti suonavano per strada. Sembrava che fosse carnevale, ma era un giorno qualunque. In piazza Dam c’era tanta luce, tanto spazio, tanta gente.

Camminai lungo i canali, guardai le chiese, mi persi nella bellezza della città, quelle architetture che andavano in alto, in alto, e anche le case strettissime con le finestre grandi. Quel cielo dove le nuvole correvano veloci.

Veloce venne anche il pomeriggio. Presi un tram, o forse un bus, e andai fino al capolinea.

Perché? Per vedere tutto quello che potevo, con un biglietto solo. Ma era un’idea sbagliata. Mi ritrovai in una periferia orrenda, da solo. Entrai in un pub, ero stanco. Presi una birra, e dopo un po’ mi addormentai.

Mi svegliò l’uomo del pub: “Hey man, you can’t sleep here”. Mi ritrovai fuori, c’era tanta luce ma forse era tardi, forse erano le otto di sera. Non sapevo più come tornare in centro, e dovevo cercare un posto dove dormire.

Mentre aspettavo il tram, mi misi a suonare la chitarra. Lì, forse era una canzone di Guccini. “Canzone delle situazioni differenti”, che parla di un uomo e una donna ad Amsterdam. “Poi piovve all’improvviso sull’Amstel, ti ricordi?”, dice la canzone.

Asmterdam, in quella canzone, sembrava un palcoscenico quieto. Lei è una ragazza dell’alta borghesia, ha pretese intellettuali, ma per atteggiamento, per moda. Lui è un montanaro diffidente, intuisce subito che il loro è un dialogo tra sordi.

Mentre suonavo, si fermò un uomo.

 

Mi disse: “Ti ho sentito, sei bravo”. Nice voice, bella voce. E aggiunse: “Sali, ti porto dove devi andare”.

Parlò di musica, aveva a che fare con delle case discografiche,. “Conosco tutti i proprietari dei locali di Amsterdam: se stasera ti metti a suonare d’impegno, puoi fare mille o anche duemila dollari”, mi disse.

Visto che il mondo mi aveva regalato in pochi mesi un viaggio a Frascati, il primo bacio della mia vita, e poi altri due viaggi internazionali, avevo una certa tendenza a credere alla buona sorte.

E così ci credetti.

L’uomo mi disse che mi avrebbe presentato al gestore di un locale nel centro di Amsterdam. Prima però doveva passare dalla sua ex moglie. Che viveva ad Haarlem, che era distante trenta chilometri. “Ci siamo separati, ma è ancora innamorata di me. Forse torniamo tutti e tre ad Amsterdam”.

Prese l’autostrada, c’era ancora luce perché al nord, d’estate, le giornate sono lunghissime. Ma saranno state le nove di sera, forse anche le dieci. Parcheggiò in una zona residenziale anonima, mi disse “stai nell’auto, torno subito”.

Adesso non avrei fatto nemmeno una delle cose che ho fatto quel giorno.

Ma evidentemente piazza Cosseria, la Gomorra delle mie scuole medie, non mi aveva insegnato un accidente di niente.

Dopo dieci minuti, l’uomo tornò.

Era furioso. Cominciò a battere i pugni sul volante, a maledire la ex moglie, l’Olanda, il mondo intero, la moglie “that bitch!”, e urlava.

Aveva i capelli neri, i baffi, la pelle olivastra, poteva essere indiano o delle Antille, dai Caraibi, antiche colonie olandesi. Somigliava a Omar Sharif, notai mentre quasi sfasciava il volante. E io rimanevo tranquillo in macchina.

Poi mi guardò, con gli occhi neri pieni di furore, e gridò “You!”. Pausa. “You stole my passport!”. Nei dieci minuti in cui era stato nell’appartamento e io in auto, gli avevo rubato il passaporto.

A quel punto, uscii dall’auto, mentre lui mi prendeva per un braccio e diceva “io ti porto dalla polizia!” e riuscii, non so come, a mostrarmi così incazzato da riuscire a tirar fuori me, la borsa Addas e la chitarra da quell’auto.

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