Quella cosa chiamata resilienza

DI MARINA AGOSTINACCHIO

Lo scorso maggio, una donna ungherese di nome Szilvia è stata ricoverata in un’unità di terapia intensiva per Covid-19.
Non riusciva a respirare ed è stata messa sotto un ventilatore, poi dentro un polmone artificiale dove è stata tenuta in coma indotto per 40 giorni.

Il giorno in cui è stata ricoverata in ospedale ha anche dato alla luce sua figlia, nata con taglio cesareo.
Suo marito Jozsef si è preso cura della piccola finché mentre la moglie era in ospedale, che non si sapeva se ce l’avrebbe fatta. Era inoltre angosciato in quanto non molti pazienti sopravvivevano con i ventilatori.

Quando Szilvia è uscita dal coma, ha scoperto di aver partorito la figlia. Il suo medico ha detto che la sopravvivenza di Szilvia è stata miracolosa.
Sebbene abbia poi sofferto di effetti collaterali, si si è saputo che la ripresa è graduale perché ora è a casa con il suo bambino al suo fianco.
La notizia ci fa riflettere sulle possibilità infinite di ripresa delle donne quando si porta una vita nel proprio grembo e sulle profonde motivazioni che rende il genere donna capace di ingaggiare un corpo a corpo con un universo nemico quando si sente minacciata.

Si chiama “resilienza la capacità delle persone di riuscire ad affrontare gli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà. In altre parole la resilienza consente l’adattamento alle avversità”.

Pare che le donne resistano meglio a stress di ogni tipo, che sopportino e reagiscono a situazioni per molti impossibili da sostenere.
Leggo che diverse ricerche scientifiche confermerebbero quanto percepibile a occhio nudo e cioè la naturale propensione delle donne ad affrontare le difficoltà; in particolare uno studio dell’università americana di Buffalo, New York pone in relazione questa forza intrinseca alla struttura femminile con la conformazione del cervello femminile.

Studi a parte, rifletto su come, questa virtù, se così possiamo chiamarla, si coltiva negli anni. A me della mia generazione, ce l’insegnava la mamma o la nonna. Una virtù da tessere con pazienza.
Durante l’infanzia e l’adolescenza mi sembrava una prova di iniziazione, continua, da affinare, fatta di stadi; c’è chi la vede come una corsa ad ostacoli di cui non si vede mai la fine, come se una mano invisibile spostasse sempre l’asticella del traguardo.

Anche nella sfera lavorativa le donne mettono in atto strategie che sottolineano un modo di affrontare la vita con grinta. Farsi valere, farsi ascoltare, affermare diritti che sembrerebbero acquisiti, diventa in parecchie occasioni motivo di logoramento.

Leggo di Arlinda Laska che parla di tutte le difficoltà che deve affrontare una Donna in carriera, Circa poi le politiche sulle pari opportunità in Italia, Arlinda afferma che, più che sulla parità salariale, si dovrebbe focalizzare l’attenzione sulla parità di opportunità e di trattamento.

E già, perché se pensiamo alle assunzioni in alcuni ambiti di lavoro dove, prima di farti firmare, ti viene fatta la domanda – e ancora oggi -sulle intenzioni che hai di diventare madre… O se pensiamo agli scatti di avanzamento, quelli che sarebbero dovuti per come si svolge il proprio lavoro, alle possibilità di spostamento meritocratico, a quelle di occupare ruoli organizzativi per capacità incontestabili…

Girando inoltre per i social possiamo scoprire donne emigrate piene di energia, capaci di denuncia, donne propositive.
Vi lascio, prima di chiudere con questo post, trovato nel gruppo Donne che emigrano all’estero.
Il post e Di Alice Castiglione che vive in Gran Bretagna e si definisce Artivista, educatrice A volte Alice scrive per un giornale che si chiama Eco Internazionale.
Ecco il post
“La campagna “Women At Work” , lanciata dall’associazione femLENS, nasce per rivendicare la dignitá della narrazione del lavoro delle donnə sia esso manuale, intellettuale o domestico. Al progetto, F.I.G.A. (Foundation for International Girls in the Arts) partecipa come femLENS Ambassador raccogliendo e pubblicando elaborati di fotografia realizzati da donnə italianə sia residenti in Italia che expat all’estero.

Questo progetto é un contributo in materia di studi di genere nel campo della cultura visuale per smantellare l’approccio attuale, proponendo ed elaborando nuove estetiche e pratiche che non siano degradanti ed oggettificanti”.

Quello che ci chiede Alice è di proporre immagini di donna che lavora oltre gli stereotipi. E così, sotto il suo scritto vedo la foto di mani intente al lavoro con una macchina da cucire. Ci piacerebbe saper quali idee sono nate a tal proposito. Forse ne hai una tu che stai leggendo?

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