Quello che guarda troppo la televisione

DI GIOVANNI BOGANI

Quello che mi dispiace, alla fine, è di non aver trovato l’anima gemella. Credevo sinceramente che ad ognuno fosse destinata un’altra vita. Che non fossimo destinati a nascere, crescere e andarcene da soli. Che si riuscisse, in una vita, a entrare in sintonia profonda con un’altra persona, un’altra creatura. Che si potesse ridere insieme, scoprire insieme la vita.

Non è andata così, ed è sempre meno probabile che vada così. Ma forse in pochi, nell’umanità, hanno vissuto questa sintonia, questo vivere insieme, questo amarsi che io credevo possibile, che forse credo ancora possibile.

Nessuna delle donne che ho amato si è appassionata ai miei libri. Vuol dire, molto probabilmente, che non c’è niente di buono dentro. E se ogni mia storia è finita con un litigio, con l’odio, e mai con una carezza, vorrà dire che sono io lo stronzo. “Ah, io sarei lo stronzo… quello che guarda troppo la televisione”, canta Lucio Dalla in una sua canzone, “Telefona fra vent’anni”.

In effetti, guardo troppo la televisione. Guardo troppo Facebook, guardo troppo Youtube. Tutto quello che non è vivere, lo faccio. Per cercare qualche briciola di vita, lì dentro, visto che di vita vera non ce n’è.

2. Irffan Khan

Nel film che ho visto stasera in televisione c’era Irffan Khan, l’attore indiano che è in “Vita di Pi” e in “The Millionaire”. Il film di stasera l’ho rivisto dopo tanti anni: si chiama “Namesake”. È un caso che me ne sia accorto: era nella tv dei preti, Tv2000. Ma è bello, è intriso di amore. L’amore fra un uomo e una donna che si sono scelti, che affrontano la vita insieme. L’amore di un figlio che prima si vergogna dei suoi genitori, poi capisce quanto facciano parte di lui.

La protagonista appare, giovane, in una casa bengalese. I genitori di lei stanno parlando, in salotto, con quelli del giovane che le viene proposto in sposo. Lei, nell’ingresso, vede le scarpe di lui, vicino alla porta. Hanno un’etichetta americana. Lei, d’istinto, con naturalezza, lascia scivolare i suoi piedi nudi in quelle scarpe. E non si separerà più da quell’uomo.

Lui è Irffan Khan. Un attore indiano, figlio e nipote di attori. Così mi pareva mi avesse detto Kanika, la mia fidanzata indiana, quando abitava in casa mia. Sono volati, quei tre anni. Comunque. Irffan. Con i suoi grandi occhi a palla. Con la sua gentilezza, nell’interpretare quell’indiano che vive negli Stati Uniti, che cerca di tenere unita la famiglia, mentre i figli si vergognano un po’ di lui. Mentre diviene evidente nel film quella crepa, quella frattura che si apre fra un figlio adolescente e un padre che ha il solo torto di conoscere altri libri, altre parole, altri tempi. Come è stato per me con mio padre.

Nel film, Irffan Khan spiega al figlio perché lo ha chiamato Gogol’, quel nome così strano, per chiunque. Stava leggendo un libro di Gogol’, in treno, quando il treno ha deragliato, tutti attorno a lui sono morti. Lo avevano recuperato fra le lamiere e i cadaveri. “Da allora ogni giorno è un giorno regalato”, dice il padre. “Tu mi ricordi ogni giorno che è venuto dopo quel momento”.

Dovrei pensare anche io che ogni giorno, da adesso in poi, è un giorno regalato. E in fondo sono già molti anni che ogni giorno, per me, è un giorno regalato.

Immagine tratta dal web

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