Renato Pozzetto, interpretando il primo ruolo drammatico, conquista il Nastro d’Argento speciale

DI GIOVANNI BOGANI

Ieri, alle quattro di pomeriggio, provavo a far squillare il telefono di Renato Pozzetto. Senza molta speranza di ricevere risposta, per la verità. E invece…

“A che cosa ho dedicato il pomeriggio? A un rasaerba che non va. Ho rintracciato la ditta: per ironia della sorte, si chiama Ferrari”. Raggiungiamo Renato Pozzetto al telefono. Dal rasaerba si passa a tagliare l’erba fitta dei ricordi, del cinema e della vita.

Milano, la guerra, i bombardamenti. La fuga in un paesino sul lago Maggiore, la povertà. Gli anni del cabaret: gli incontri con Fo, Jannacci, Gaber che gli fa lezioni di chitarra. L’amicizia con Cochi Ponzoni, da quando erano bambini. Quel loro umorismo surreale che si impone nella tv grigia degli anni ’70. La vita, la vita l’è bela, basta avere l’umbrèla.

Poi il cinema, una serie pazzesca di successi. Qualche anno fa, la decisione di ritirarsi, la scelta del silenzio. E oggi, il ritorno. Col film di Pupi Avati “Lei mi parla ancora”, dal libro autobiografico scritto a 93 anni da Giuseppe Sgarbi. Un ruolo drammatico, in cui Pozzetto mostra la faccia, ora scolpita dal tempo; e rivela quella tenerezza che aveva sempre tenuta nascosta. E a suggellare questa rinascita, arriva un Nastro d’argento speciale, che gli verrà consegnato il prossimo giugno.

Pozzetto, ha sorpreso tutti la sua interpretazione tenera, malinconica, toccante. Come si è avvicinato al film?
“Un mattino Pupi Avati mi ha telefonato: ho una parte per te in un film, mi dice. Penso ‘Ma non si sarà sbagliato?’. Leggo il copione quel pomeriggio stesso. Lo rileggo la sera. Lo rileggo ancora la notte, perché mi emoziona da morire. Il mattino dopo gli dico di sì”.

È quasi, per lei, un nuovo debutto, lontano dal genere comico. Lo sottolinea, con vivace paradosso, la presidente dei giornalisti cinematografici, Laura Delli Colli.
“Non ho mai sentito il genere comico come una gabbia. Già a vent’anni, portai nel cabaret il racconto di un militare della guerra del ’15-18. La gente rideva, fino al momento in cui raccontavo di un soldato colpito a morte. La gente si bloccava. Io capii che, volendo, potevo anche raccontare storie drammatiche”.

La guerra – quella del ‘40 – la portò via da Milano, bambino.
“Sì: al contrario di quanto dice Wikipedia, io sono nato a Milano. Finimmo a Laveno, un paesino sul lago Maggiore, nel 1942, per via dei bombardamenti. E lì incontrai Cochi Ponzoni. Siamo cresciuti insieme”.

A vent’anni eravate di nuovo a Milano, a vivere la grande stagione del cabaret. Che atmosfera si viveva?
“Eravamo poverissimi. C’era una cantina dove, con un bicchiere di vino, si poteva stare tutto il giorno. Appoggiata al muro c’era una chitarra, e il permesso di suonarla. Cantavamo canzoni di libertà, di lavoro, di anarchia. Incuriosimmo degli artisti: Pietro Manzoni e Lucio Fontana. E poi, piano piano, tanti altri”.

Come conosceste Jannacci, Fo, Gaber?
“Tutti lì, al Cab ’64 e poi al Derby. Gaber si mise persino a insegnare la chitarra a me e a Cochi, evidentemente molto scarsi. Enzo Jannacci ci raggiungeva tardi, dopo il turno in ospedale. Dario Fo ci invitava a fare le vacanze con lui a Cesenatico. Anni irripetibili”.

Negli anni successivi, quelli del cinema, chi ricorda con più affetto?
“Paolo Villaggio. Un amico vero, uno dei pochi. Mi invitava nella sua casa a Bonifacio, in Corsica: andavamo in barca insieme. E Tonino Guerra, il poeta amico di Fellini: mi portava a mangiare le tagliatelle a Sant’Arcangelo di Romagna…”.

Sembra molto legato a piaceri semplici: cibi, luoghi, persone.
“E’ così. E più di tutto, alla famiglia. Ogni venerdì dal set a Roma correvo a prendere l’aereo per Milano. La domenica correvo in centrale per prendere il treno di notte Milano-Roma, ed essere sul set il lunedì mattina. Per anni ho fatto così”.

Che cosa fece con i primi soldi guadagnati?
“Ciò che fanno tutti i poveri: ho comprato una casa per i miei genitori a Laveno. E sono andato a trovarli lì, per anni”.

Da qualche anno ha ripreso il teatro con Cochi. Che effetto fa?
“Ci conosciamo da quando avevamo due anni: quando andiamo in macchina, parliamo dei ricordi di una vita. E quando si apre il sipario, scopriamo che – per fortuna – la gente ci vuole ancora bene”.

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