Riconoscenza

DI CARLO MINGIARDI

Avevo pianificato quel fine settimana da tempo, avevo bisogno di staccare da tutto e da tutti, gli ultimi fatti della mia vita disordinata avevano fatto fare corto circuito al mio malandato cervello.
La consapevolezza che avrei dovuto attraversare un periodo estremo, con poche certezze, poche possibilità di successo, mi avevano convinto a concedermi quei due giorni di riflessione solo con me stesso.

Avevo bisogno di risposte, ma quelle non arrivano mai puntuali, tutt’altro. Più le cerchi e più la valigia di domande si riempie all’inverosimile.
Comunque non avevo trovato altra soluzione, che montare in macchina e raggiungere quel paesetto nel cuore dell’Appenino che conoscevo ormai bene. Era il mio rifugio segreto, la mia coperta di Linus, il mio piccolo angolo di paradiso.

Ci avevo passato le vacanze estive da bambino con i miei, da ragazzo con gli amici, con la mia “ormai ex moglie” da uomo e adesso che avevo da poco varcato la soglia dei cinquanta ci capitavo solo nei momenti topici.
Aspettai l’alba come una liberazione, dopo una nottata difficile, non vedevo l’ora di incamminarmi per il mio sentiero preferito, un percorso di una quindicina di chilometri immerso in una delle faggete più antiche del mondo.

Avevo bisogno dell’odore del muschio selvatico, di bere da quel ruscello che creava delle piccole cascate tra i massi di calcare, di osservare i raggi di sole che si facevano strada a fatica tra il fitto fogliame. Volevo solo sudare e produrre endorfine a dismisura, con la speranza che anestetizzassero un po’ il fiume di pensieri che mi attraversava.
Quando raggiunsi la piccola grotta dimora di una Madonnina, mi sedetti sul prato, sfilai dallo zainetto il panino che mi ero portato e iniziai mangiare con gusto. Quando finii quella gustosa merenda mi sdraiai sull’erba ancora umida e cercai di amplificare al massimo i cinque sensi che il Padre Eterno ci ha donato.

Non passarono pochi minuti, quando sentii il rumore di rami spezzati da pesanti passi, mi tirai su e con terrore mi resi conto che di fronte a me era sbucato dalla radura un’orsa enorme, dietro di lei ad una ventina di metri lo seguiva un cucciolo che avanzava a fatica perché non riusciva ad appoggiare la zampa anteriore.
Avevo percorso quel sentiero in vita mia centinaia di volte, ma non mi era mai capitato di fare in incontro del genere.

Sapevo che era una zona frequentata da quelle splendide creature, ma trovarmene due a pochi passi da me mi paralizzava dalla paura. Era successo da poco tempo quel fatto in Trentino dove aveva perso la vita un ragazzo.
Cercavo di capire cosa mai avrei potuto fare, fuggire sarebbe stata una follia, arrampicarmi su un albero impensabile, non avevo più l’agilità di una volta, decisi di rimanere immobile.
L’orsa nel frattempo si era accovacciata ad una decina di metri da me e il cucciolo a fatica l’aveva raggiunta.

Mi osservava con occhi profondi e annusava l’aria con le narici enormi, poi iniziò ad emettere dei grugniti verso il cucciolo quasi a dirgli qualcosa. Cercavo di mantenere la calma, ma sentivo i battiti del cuore che mi rimbombavano nelle orecchie. L’orsetto nel frattempo mi si avvicinò a fatica e iniziò ad annusarmi, fu allora che mi resi conto che aveva conficcata nella zampa una scheggia di legno.
Tutta la situazione mi sembrava la scena di un film di Jean Jacques Annaud, io l’orsa e il cucciolo ci guardavamo, il tempo sembrava si fosse fermato, cercavamo tutti e tre di capire.

Non era possibile che quella madre cercasse aiuto da me per il suo cucciolo ferito, non riuscivo a crederci, un animale selvatico non poteva avere quel tipo di comportamento, ma dovevo prendere una decisione.
Il mio istinto mi ha ingannato poche volte in vita mia, dentro di me sentivo qualcosa che mi diceva che dovevo fare qualcosa per aiutare quell’animale in difficoltà. Ero consapevole che il rischio sarebbe stato altissimo, ma dovevo cercare di agire in qualche modo.

Con estrema cautela iniziai a toccare il cucciolo, ad accarezzarlo, non sembrava avesse timore, la madre nel frattempo continuava a guardarmi ma non si mosse. Quando presi la zampa ferita tra le mani valutai che sarebbe stato possibile sfilare quella scheggia, guardai la madre per l’ultima volta, con una mossa rapida gliela sfilai e chiusi gli occhi in attesa di una reazione dell’orsa.
I secondi passavano lenti e inesorabili, pensavo a che cavolo di morte stavo andando incontro ma non accadde niente.
Quando riaprii gli occhi vidi quei due splendidi animali andarsene via, la madre si voltò verso di me per un’ultima volta, mi guardò a lungo con gli occhi profondi e misteriosi, poi sparirono come erano arrivati nella boscaglia.

Passarono cinque anni da quell’incontro, nel frattempo la mia vita era cambiata inaspettatamente. Avevo preso decisioni importanti, estreme, avevo incontrato una donna meravigliosa che mi aveva donato una figlia speciale, la chiamammo Speranza, aveva la sindrome di down. Avevamo deciso di trasferirci nella casa che mi avevano lasciato i miei genitori in quel paesetto tra gli Appennini, lì, avevamo avviato una piccola attività commerciale.

Eravamo tre anime che erano riuscite a ritrovare un nuovo equilibrio, lontano dalla folle frenesia della vita cittadina, lontano dalla cattiveria umana. Avevamo poco, ma quel poco ci bastava, non ero mai stato così felice.
Avevo attraversato quella farsa teatrale che si chiama vita alla ricerca di non so bene che cosa e adesso mi bastava il sorriso di mia figlia e della mia compagna per sentirmi completo, in pace con me stesso.

Quella mattina però, al risveglio ci accorgemmo che Speranza non era più nel suo lettino, la porta di casa aperta non lasciava alcun dubbio, durante la notte era uscita. Angoscia, terrore, sgomento, come una valanga spazzò via ogni cosa, quel fatto ci aveva fatto piombare in un incubo.
Mentre Caterina chiamava al telefono il numero d’emergenza per chiedere aiuto, io uscii di casa e iniziai a cercare nei dintorni la mia bambina. La chiamavo a squarciagola senza ottenere risposta, poi il mio istinto mi disse di imboccare il sentiero che facevamo spesso insieme.

Correvo come un disperato, sapevo che Speranza nonostante i suoi quattro anni era una camminatrice instancabile, il cuore mi scoppiava, le tempie mi facevano male, non riuscivo a respirare.
Quando raggiunsi la piccola grotta con la Madonnina, la scena che vidi aveva dell’irreale: la mia bambina era raggomitolata sul prato accanto a un orso, era praticamente abbracciata a quell’enorme animale.

Non riuscivo a credere ai miei occhi, quando il mammifero si accorse della mia presenza si alzo sulle due zampe posteriori, fu allora che mi resi conto che si trattava della madre del cucciolo che avevo aiutato anni prima, la macchia di pelo nero a forma di mezza luna che aveva sul petto era inequivocabile segno distintivo che si trattava proprio di lei.
Si avvicinò lentamente fiutandomi con il suo enorme tartufo nero, mi guardò con quegli occhi profondi come il mare e mi sfiorò le mani.
Mi aveva riconosciuto.

Mi assalì un vortice di emozioni che non avevo mai provato prima: gioia, riconoscenza, gratitudine, verso quella meravigliosa creatura che aveva protetto tutta la notte mia figlia e che in quel preciso istante me la stava restituendo sana e salva.
Le lacrime mi rigavano il viso, il cuore mi esplodeva dal petto, le accarezzai quella testa enorme, quel pelo morbido che odorava di selvatico, mi uscì dalla bocca una sola parola:
“grazie…”

Ci guardammo a lungo per l’ultima volta, ci guardammo dentro la nostra anima, l’anima di un padre e di una madre, poi si voltò e sparì nella boscaglia.

Immagine tratta dal web

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