DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN
Robert Delaunay inizia a dipingere molto giovane, mostrando sin dall’inizio una preponderante ammirazione per Paul Gauguin e Georges Seurat, senza tuttavia tralasciare una forte predilezione per il movimento Fauves, che influirà non poco sulla sua formazione artistica.
Emotivamente coinvolto dalla modernità di Cézanne, in particolare riguardo l’innovativa visione della natura, resa attraverso una logica di forme e colori solida, ai limiti della rigorosità, inizia a dedicarsi a ricerche analitiche incentrate sul colore, in relazione all’utilizzo di tale elemento in quanto mezzo autonomo di espressione, quindi rifiutando le modalità pure e semplici di visione degli oggetti. A questo proposito si afferma anche come teorico dell’arte, interessandosi alle osservazioni circa le interazioni tra colori primari e secondari.
Dopo il matrimonio con l’artista di origine ucraina Sonia Terk, ed in seguito all’invito del collega Vasilij Kandinskij di aderire al movimento Der blaue Reiter, subisce il fascino dell’arte di Paul Klee, che comporta una decisa deriva del suo percorso artistico verso l’arte astratta.
Intorno al 1912, infatti, comincia progressivamente ad abbandonare il Cubismo classico, per fondare, sempre all’interno dello stesso movimento cubista, una corrente differente, che il poeta Guillaume Apollinaire definirà Orfismo, derivandone l’appellativo dal mitologico musico Orfeo, inteso ad identificare il peculiare aspetto di dinamismo musicale delle opere, tale da separare la rappresentazione degli oggetti rispetto alla propria effettiva realtà.
Una denominazione tuttavia poco gradita allo stesso Delaunay, il quale preferisce parlare di Cubismo orfico.
Il Cubismo Orfico riassume, quando non anticipa direttamente, le correnti avanguardiste del primo ‘900, espressione di un cosiddetto modernismo classico atto ad identificarne il fondatore come uno degli artisti, sotto questo aspetto, più influenti di Parigi.
Volontà e ricerca di sperimentazione raggiungono un livello talmente elevato da concentrare l’interesse anche sugli effetti più intensi della luce solare, derivanti dal relativo, pericoloso abbacinamento.
Il sole finisce per assurgere ad elemento portante, ed i vari dipinti intitolati Contrasti simultanei e forme circolari, finiscono per simulare la fusione dei colori, che finiscono per schiarirsi progressivamente in un effetto ottico di grande realismo.
In particolare, a proposito di Formes circulaires, Soleil n.2, con un discorso analogicamente applicabile al proposto Manège des cochons, Delaunay, come si evince dalle stesse descrizione delle opere fornite direttamente dal Centre Pompidou di Parigi, presso cui si trovano entrambe, persevera nella propria costante ricerca sulla potenza rotatoria del colore.
‘Pensate a un quadro, e provate a descriverlo. Riuscite a riprodurre a parole le tinte e le sfumature che avete in mente?’, l’antefatto di Philip Ball in ossequio alle caleidoscopiche interazioni e relazioni tra colore e linguaggio, suffragato da una serie di sorprendenti elucubrazioni in grado di coinvolgere tutti i sensi senza limitarsi alla vista.
Delaunay ci regala un’ipotetica girandola di colori complementari e non, in cui sono i cromatismi a dominare l’attenzione dell’osservatore, pur a propria volta paradossalmente soggiogati da quel l’inevitabile visione del circolo bianco centrale.
Tutto rotea e si plasma in un costante mulinare, che tuttavia, anziché vorticare impetuosamente creando un unico effetto di abbacinante albeggiare, prende nettamente atto di attinenze solo potenzialmente fungibili: tutto rimane ragionevolmente distaccato, in attesa di quel deus ex machina preposto ad attivarne l’effetto, nel frattempo teso a lasciarsi ammirare nella visione di una prospettata astralità, mentre giostre sfrenate e musica soggiogano lo spettatore in un tripudio poetico confermato dal ritratto dell’amico Tristan Tzara.
La vorticosa modernità di uno spettacolo popolare ribadito sulle offerte di un fantasmagorico luna-park, ben più impegnativo di una semplice struttura allestita in qualità di parco divertimenti, al contrario incidente su una realtà capziosamente sopraffatta…
Robert Delaunay (1885-1941), Manège de cochons, 1922, olio su tela, 248×254 cm., Parigi – Musèe National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou
Immagine: web
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