Roberto Vecchioni, quell’indomabile passione per la vita

DI GINO MORABITO

Parla e sorride, mentre tormenta un pezzo di sigaro. Lo mette in bocca e toglie continuamente, poi l’accende. A confrontarsi con Roberto Vecchioni c’è ancora una lezione da imparare, una piccola perla di saggezza che salta fuori dalla tasca dei jeans.

Un navigatore di passioni che canta la vita, da sempre. Sorprendente, unica, commuovente, stronza. La vita dei fatti semplici e dei dettagli, con tutto il suo andirivieni di gloria e di tonfi. Quella vita da abbracciare comunque, anche negli affanni. Dove il senso ultimo dell’essere umano non è tanto correrle dietro, ma davanti.

Qualcosa oltre l’arcobaleno, per un uomo che ha conosciuto il dolore.

«Ho conosciuto il dolore ma l’ho combattuto. Ho praticamente mezzo polmone in meno e un rene in meno, e questo è un tipo di dolore. Poi ho altri dolori, come tutti noi uomini, non sto qui a raccontarli. Spirituali ne ho avuti tantissimi e ne ho anche familiari notevoli, ma non inficiano nulla – e lo dico nella canzone “Ho conosciuto il dolore”, e lo dico nella vita. Tutto questo non fa altro che rafforzare le difese che un uomo ha contro il male, contro la fatica, contro il dolore. Sono prove, anche necessarie. Perché è importantissimo sbattersi, superare e andare avanti. Credo che sia proprio questo il senso dell’essere umano: non correre mai dietro la vita, ma correrle davanti.»

Osservando la vita col cannocchiale.

«Non sono uno che guarda lontano e c’è anche un po’ di vigliaccheria in questo atteggiamento. Però sono un uomo che, avendo il sogno come caratteristica fondamentale, sogna sempre che il futuro sia buono. Talvolta il futuro lo precorro. Sogno così tanto, che addirittura i desideri si avverano. E, quelle volte che non si realizzano, li ho sognati così intensamente, che va bene lo stesso.»

Al di qua della siepe l’infinito.

«È inutile andare a cercare le ragioni della verità e della bellezza fuori di noi, molto lontano. Dobbiamo cercarle dentro. La siepe è il confine tra il fuori e il dentro, e dentro abbiamo tutto l’universo.»

Un universo mondo che si fa canzone, ridotta all’essenza dei sentimenti.

«La canzone dev’essere asciugata il più possibile, questa è una lezione che ho imparato nel tempo. In generale, la canzone d’autore è ancora quella dei “grandi vecchi”. Mi capita di riascoltare le parole di Battisti e De André, di Fossati e Guccini, che sono maestri grandissimi, forse anche giustamente non più imitati. Lo sono stati per tanto tempo e adesso non più perché c’è un cambiamento di pensiero, di vita, che naturalmente si riflette in tutte le forme d’arte. E anche la canzone detta “d’autore” ha subito questa trasmutazione, quasi genetica. Non so se sia giusto e bello. Anzi, credo sia giusto, perché va in pari con la società e col suo modo di comunicare. Quanto al bello, non posso farci niente. Per me il bello è classicità, cultura, padronanza del termine e chiarezza nel messaggio.»

L’esortazione è lapidaria: “siate artefici del vostro destino”.

«Direi che più semplice di così non si può. È buttata là, è chiara, e lo è per i ragazzi: mai abbassare le braccia, mai urlare improperi al vento, perché la colpa è quasi sempre nostra. Si può anche perdere nella vita, ma questo non deve generare sconforto. D’altronde, il tema è sempre quello, il viaggio, non l’arrivo. È come ti muovi nella vita e se ti muovi. L’importante è non stare fermi.»

Amare incondizionatamente ciò che si vive: gli atti, i gesti, le scelte, gli entusiasmi, i tonfi.

«La mia è l’impressione di uno che ha tutto l’arco della vita negli occhi e nella mente. È il risultato finale di tante ricerche e di tanti dubbi che si risolvono poi in questa piccola verità. Probabilmente a vent’anni non avrei avuto quest’idea, e nemmeno a trenta. È una questione di saggezza del tempo ma non solo, anche del cuore. In realtà, non è un fatto che dipende dalla ragione. Se tu ragioni, pensi che la vita non è che vada amata sempre. È il sentimento, è l’emozione che ti fa pensare che, anche quelle cose della vita che sembrano orribili, in realtà, hanno una loro collocazione nella storia.»

I desideri non invecchiamo quasi mai con l’età

«Certe volte, quand’ero in gradazione alcolica particolare, ne facevo di cose strane. Ma ormai sono anni che è passata. A parte l’amore e il sesso ovviamente, perché non c’è età per quello.»

L’irrinunciabilità di qualche vizio.

«La passeggiata serale, da fare sempre, perché devo vedere com’è Milano prima di andare a dormire. A piedi, naturalmente, visitare quelle zone che conosco di meno insieme a quelle che conosco di più. Osservare com’è cambiata, se ci sono le stesse persone oppure no. L’abbigliamento: ho la mania di non usare quasi mai le camicie, non mi interessano proprio. Ho bisogno di magliette e golf oppure giacche smesse, piuttosto andanti. Il caffè in un certo posto, dove fanno quello napoletano. Caffè che diventa motivo di incontro con persone che conosco ormai da tanto tempo, dei napoletani, e mi fa piacere ogni tanto sentire parlare la lingua delle mie origini. Su tutti, il vizio di cui non riuscirei proprio a fare a meno è il mio toscano. È una specie di coperta di Linus. Mi piace perché mi rasserena, mi rassicura, mi coccola.»

Poi c’è la passione.

«Nella vita bisogna avere passione, non si possono fare le cose tanto per farle. Ho sempre diviso il mondo in sacro e profano, dove il sacro non corrisponde alla religione. Assolutamente! Corrisponde alle cose per cui hai passione e per cui ti batti, per le quali vivi e che ti fanno stare bene. Altra faccenda sono le cose profane. Puoi viverle con molta naturalezza, sempre con tanta dignità, ma sono profane: un appuntamento con qualcuno, vendere un disco… e non puoi avere passione per vendere un disco. La passione ce l’hai quando lo canti.»

La felicità non è una questione di istanti ma una presenza costante che corre parallela a noi, in un tempo in cui nulla si perde.

«Bisogna rivedere la definizione di felicità. Per me non è quella che si trova sul vocabolario. Lo star bene, l’armonia con gli altri, il piacere della vita, ridere, sorridere, divertirsi… sono una parte di felicità. La felicità è un fatto molto più ampio, grandissimo. È abbracciare la vita. Abbracciare la vita stessa con tutto il suo andirivieni va accettato sempre, perché i dolori sono in tema, non potremmo viverne senza. Dobbiamo comprenderli e ci dobbiamo soffrire.»

Allora si scrive di malinconie, di qualche nostalgia.

«So benissimo che la malinconia e la nostalgia hanno delle medicine che possono interrompere, lenire i dolori. Cantare e scrivere sono dei mezzi per raddolcire i momenti aspri, anche quelli più tristi della vita. Non è che la vita sia una lunga carrellata di risate e di salti di gioia, non la accetterei mai una vita così. È un grande disordine, invece, di fatti, che un momento sembrano inspiegabili e che ti fanno male, e poi entrano nel disegno. Così fai caso, quando arrivi alla soglia degli ottanta, al grande disegno che hai: non solo di anni materiali, ma di pensieri.»

Riuscire a cogliere il senso.

«Accorgersi soprattutto di quante cose ti sono sembrate tremende, e tremende non erano. Erano servite a quello che sarebbe venuto dopo. E questo non si può capire a vent’anni. Lo si comprende nel tempo, con l’assiduità della cultura, del pensiero, con le saggezze dei vecchi. Perché la felicità è anche questo: vivere per anni per cose che non avvengono, ma credere sempre che possano avvenire.»

 

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