Roy Lichtenstein e la pop-art

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Andy Warhol. Sono loro i più reali, autentici esponenti di quel movimento identificato come Pop Art americana, ognuno con le proprie caratteristiche e modalità espressive, talvolta frastornanti – lo shock prodotto alla Biennale di Venezia del 1964 si consegna alla storia – ma in grado di rappresentare qualcosa di iconico partendo semplicemente dal vissuto quotidiano di tutti noi.

Se è vero che ogni giorno la nostra esistenza è letteralmente dominata da immagini, prodotti di consumo, slogan pubblicitari, occorre accettare tale contesto sia come dimensione irrinunciabile della nostra vita, sia in qualità del condizionamento che tutto ciò determina sulla nostra visione del mondo, forgiando una mentalità indiscutibilmente consumistica.

Qualcosa di popolare – pop – che ci appartiene, e permea a tal punto ogni nostro istante da diventarne parte integrante, talvolta nemmeno percepita, ma scontata, e proprio per questo motivo in diritto di essere sottolineato e valorizzato.

Quanto assurge ad un’importanza del genere, merita di essere mostrato in una bellezza esistente e diversa, che proponga gli oggetti a noi vicini in qualità di prodotti degni di catalizzare la nostra concentrazione risultandone notati ed ammirati.

Lichtenstein, tuttavia, rispetto ai colleghi citati, raggiunge uno stadio leggermente più elevato, togliendo letteralmente il più possibile la sua presenza dall’opera rappresentata, che si ritrova a vivere di vita propria in nome di una genuinità atta a non dover essere posta in discussione.

Egli resta totalmente passivo nei confronti della sua creazione, che esiste ed interviene in quanto integralmente tale; compito dell’artista non è rivelare una dimensione individuale, al contrario constatarla ed esibirla.

È il motivo per cui decide di riscattare le immagini di massa ai limiti di una sincera banalità, che comunque sperimenta e trova una sua eleganza in una visione sfrontatamente trionfante.

Ecco che abbiamo così i fumetti ingigantiti, scelti tra quelli più diffusi e commerciali che segnano, volenti o nolenti, la nostra vita e i nostri sogni, sia quando li utilizziamo per svago, sia quando li trasformiamo oniricamente in miti in cui desideriamo riconoscerci.

Il fumetto di Roy Lichtenstein è la riproduzione fedele dell’elemento originale, ma trasportato in una dimensione quasi insolente, ai limiti del parossistico, con la retinatura tipografica tipica di quella carta economica e grossolana utilizzata per la stampa dei quotidiani.

Un’immagine prodotta in serie con i materiali della società industriale ma colta nell’essenza di un’appariscenza popolare, cui non è possibile sottrarsi, servita in una dimensione in grado di manifestare un fascino insospettabile e sfacciato.

‘Che cos’è la Pop Art? Servirsi dell’arte commerciale, credo’, così risponde l’autore in un’intervista del 1963 che fornisce probabilmente l’unica chiave per comprenderlo.
Così è, ma non se vi pare…

Negli anni Duemila i Chupa Chups saranno i Chupa Chups a tributare il proprio omaggio a Roy Lichtenstein, decorando uno dei loro barattoli di metallo con una serigrafia simile alle opere dell’artista americano…

Roy Lichtenstein, Hopeless, 1963
Immagine: web

L’omaggio dei Chupa Chups a Roy Lichtenstein, collezione privata

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