Se piove ai “due leoni”

DI ORNELLA SUCCO

 

Mio padre e mia madre si erano conosciuti nel 1935 in una sala da ballo: lei aveva 17 anni e lui 19 e all’inizio la loro non sembrava proprio una storia destinata a un lieto fine, perché Lucia, la mia mamma, era molto “romantica”, amava leggere i romanzi di Liala e sognava uno di quegli amori che si trovano probabilmente soltanto nei libri.

Mio padre non corrispondeva propriamente al tipico eroe da romanzo, non era un intrepido aviatore e nemmeno un nobile decaduto: ultimo di cinque figli aveva cominciato a lavorare in officina appena terminata la quinta elementare, era un operaio e con gli anni era diventato particolarmente abile come “aggiustatore” ovvero un operaio specializzato a riparare i danni che l’uso o qualche incidente improprio potevano causare ai macchinari.

I libri però non lo interessavano molto e i romanzi d’amore meno che mai; per quanto fosse una persona gentile, educata e dotata di grande sensibilità quello che lo aveva attratto in mia madre erano stati probabilmente i suoi bellissimi capelli rossi: una cascata di capelli rosso tiziano che incorniciavano un viso pallido ma senza lentiggini e due occhi scuri che pungevano come spilli.

A quei tempi i miei nonni paterni abitavano in un cascinale detto Il Bianco che sorgeva al fondo dell’attuale via Veglia e, proprio lì accanto, sorgeva un’osteria di campagna che prendeva il nome dalle due statue decorative poste in cima ai pilastri che delimitavano il cancello d’ingresso e si chiamava, per l’appunto, “Osteria dei Due Leoni”.

Per questo motivo quando gli si chiedeva dove abitava lui rispondeva: “Ai due leoni, vicino al Gerbido”.
Considerando che mia madre abitava in via Fidia ovvero in borgata Parella e che non c’erano mezzi pubblici che collegassero direttamente queste due periferie cittadine, succedeva spesso che i due fidanzati non si vedessero per intere settimane.

In genere si davano appuntamento da un sabato all’altro in una delle sale da ballo che frequentavano insieme agli amici e poi, nella bella stagione, poteva accadere che mio padre decidesse di prendere la bicicletta e, dopo le otto ore di lavoro, anziché andare direttamente a cena facesse una sorpresa a mia madre andando a trovarla il giovedì sera.

Con il passare degli anni, poiché tra baruffe e riappacificazioni ci misero cinque anni prima di decidere di sposarsi, la visita del giovedì era diventata una consuetudine ma poteva anche accadere che Battista non si facesse vedere e, in assenza di telefoni, aveva trovato una risposta infallibile da fornire il sabato sera alla fidanzata che chiedeva spiegazioni: ”Ai dui leon a piuviia” ovvero “Ai due leoni pioveva” e ovviamente la logica conseguenza era che non si poteva sobbarcare una lunga pedalata sotto la pioggia solo per riuscire a vedersi a metà settimana.

Così quando la mattina del 18 maggio 1940, davanti alla chiesa della Divina Provvidenza, mia madre e tutto uno stuolo di invitati attendevano con qualche preoccupazione l’arrivo dello sposo che era in ritardo di almeno mezz’ora sull’orario stabilito per la cerimonia, accadde che uno dei testimoni cercasse di fare una battuta infelice chiedendo alla quasi sposa se non avesse il timore che lo sposo ci avesse ripensato.

Mia madre pare abbia steso davanti a sé la mano destra con il palmo aperto e abbia detto: “Ma no, ma no, forse ai due leoni sta piovendo.”
Per la cronaca invece era accaduto che i miei nonni avessero deciso di noleggiare una vettura per poter arrivare agevolmente in via Asinari di Bernezzo, ma l’autista non era pratico della borgata Parella ed aveva sbagliato strada …

Il matrimonio dunque si fece e nemmeno tre settimane dopo, come regalo di nozze, mio padre si vide recapitare una cartolina dall’esercito: richiamato alle armi in seguito alla decisione del governo italiano di entrare in guerra contro la Francia.

Immagine tratta dal web

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