Senza madre

DI ANTONIO MARTONE

Ero capitato per caso in quella bella dimora ieri sera. E pure per caso avevamo cominciato a parlare. Del resto, il terrazzo disponeva di una vista spettacolare: la casa era collocata ai piedi della montagna più alta della zona e da lì si vedeva tutta la valle con i tanti paesini che la abitavano e si vedevano anche, ben distinti, quegli sparuti pezzi di colori che invece erano case.

“Ho sempre sentito forte in me il senso della maternità” mi dice, mentre versa da bere a me e alle altre due persone che erano con me. “Quando appresi che mio marito aveva un problema agli spermatozoi, però, non persi il mio coraggio. E anche ora che sono vecchia non mi pento di quella scelta”.

La guardavamo tutti mentre parlava perché le sue parole avevano qualcosa di ineffabile ma più ancora sembrava sacra la maniera con cui le diceva. Del resto, io la incalzavo con le mie domande: sentivo che quella vita aveva qualcosa di non comune.

“Aveva sei anni quando andai a prenderla. Era già grande. Da allora, iniziò un calvario di medici e ospedali. Era orfana. Suo padre, morto troppo presto, aveva lasciato la madre da sola – neppure ventenne ma già con tre figli. Non resse la madre e morì lasciandola sola.

Quando andai a prenderla in quel triste Istituto, aveva sei anni ma forse era tardi per nascere una seconda volta e per diventare del tutto mia figlia. E cosi da allora medici e ospedali, ospedali e medici.

Io e mio marito abbiamo dato tutto ciò che avevamo per vederla felice ma non ci siamo riusciti. Grande però è diventata, perché a questo mondo o si cresce, o si invecchia o si muore.

Si è sposata e ha avuto tre figli. Aveva incontrato un uomo che l’amava come l’avevamo amata io e mio marito.
Un giorno di novembre di nove anni fa, mio marito mi ha lasciata. Ricordo ancora bene quella sera prima della notte fatale, quando mi disse che io ero forte e che avrei saputo resistere a tutto quanto fosse successo.

L’anno successivo non trovai più mia figlia a casa: era partita senza dirmi niente. Trovai però i bambini: dormivano nelle loro stanze e, in questi anni, quei bambini sono diventati sempre più grandi man mano che io sono diventata vecchia.

Li abbiamo cresciuti insieme, io e il loro padre: quel pover’uomo ha trasformato in affetto il dolore da cui non è mai riuscito a consolarsi”.

Siamo andati via salutati da tutta la famiglia. L’ultima immagine che ho visto è quella di tre ragazzi sorridenti: al centro la loro mamma zoppicante e piegata sulla schiena ma capace di reggere ancora sulle sue spalle quei giovani ben dritti e grossi il triplo di lei.

Immagine tratta da Pixabay

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