Solstizio d’inverno in un racconto di Natale

DI CINZIA ANNA TULLO

 

Il vento del Natale ritornò. Lontano aveva vagato, guardato e fischiato.
Si era allargato su vaste terre oscure, aveva arruffato il pelo di animalucci alla ricerca di una tana sicura, si era inchinato all’invito delle vecchie querce che, come sempre, gli offrivano ospitalità tra i pesanti rami frondosi.

Le foglie vibrarono al tocco dell’ospite. Lo salutarono liete, cercando di rallegrarlo perché di anno in anno, di lustro in lustro, quel vento aveva perso la musicale leggerezza della sua natura.

Non risuonava più di allegri cori infantili, non trasportava il suono argenteo dei campanelli appesi al collo di animali fatati, non si increspava nelle onde sonore dei colpi dell’ ascia sui ciocchi.

Non profumava più di zuppe ribollenti in paioli di rame, incendiati dalle fiamme dei camini e dalla gioia dei tanti che, in quel periodo dell’anno, imbandivano cene sostanziose e gioivano del riflesso rosso del vino buono, conservato per le occasioni speciali.

Il Vento del Natale era triste e stanco. Avrebbe voluto dormire per tutto l’inverno nel verde delle querce, riposare insieme agli scoiattoli, tra le loro montagnelle di ghiande, negli incavi degli ospitali tronchi.

Ma doveva andare. Era il suo lavoro.
Di controvoglia arrivò nel cielo sulla grande città, e fece dondolare le luminarie che sfidavano con stolida arroganza il brillio del firmamento.

Volò alto su palazzi e grattacieli e sbatté il viso contro antenne, trasmettitori e torri cariche di ripetitori.
Ferito, scese in basso e si infilò tra i passanti che affollavano le strade con indolente lentezza.

Formavano un fiume pigro, dal quale deviavano piccoli e continui rivoli che si infilavano nei negozi e nel quale se ne inserivano altri, un po’ intralciati da grossi pacchi colorati.

Il Vento giunse sulla Strada Grande, dove locali di ogni tipo erano stipati di un Popolo alla ricerca di cibi sofisticati, di alcolici esclusivi, di dolci raffinati, di musica assordante, di danze sudate.

Dopo la piazza, la Strada Stretta, meno illuminata, era presa d’assalto da un altro Popolo. Qui i locali erano più modesti, il cibo alquanto rozzo. Gli avventori, su di giri, ondeggiavano nei fumi di alcolici a basso costo e ad alta gradazione.

Eppure questi e quelli, separati da una piazza, formavano un unico Popolo edonista e narcisista. E si somigliavano tutti: gli stessi sorrisi vuoti, gli stessi gesti stereotipati.
Il Vento sostò un po’ su un filare di luci bianche e blu.

Si dondolò ancorandosi ai led a forma di abete, chiuse le sue ali possenti e, guardando in basso, osservò confuso la frenesia della folla e il traffico impazzito sul nastro stradale. Si sentì a disagio, fuori posto, come un vecchio spolverino, non più apprezzato ed esiliato in soffitta.

Allora concentrò il pensiero sugli amici semi che sopportavano il gelo della terra in attesa del risveglio; pensò, allo sforzo delle care foglie di sostenere il peso dei ghiaccioli di brina, ricordò il volo faticoso degli uccelli nell’aria appesantita dalla neve.

Il Vento lasciò la luminosa altalena e si inoltrò in strade buie. Si infilò sibilando negli infissi delle case fatiscenti abitate dal Popolo degli Inferiori, dove il Natale non era che occasione di malinconia.

Ma quella tristezza non era figlia della memoria di Natali densi d’allegria. No. Era solo il frutto di una rabbia cupa e di un insopportabile senso di esclusione. Ammassato in stanze anguste, quest’altro Popolo sognava rivoluzioni per capovolgere il mondo.

Immaginava il piacere di annientare Quelli del centro, escogitava piani per cacciarli dai tavoli, dai negozi, dai grattacieli, per prenderne il posto. Fantasticava di vivere esattamente come loro, di andare in vacanza, vestire alla moda, possedere gli ultimissimi modelli di ogni cosa, insomma, di dare un senso alla vita.

Il Vento del Natale si infilò allora sotto le pesanti porte di una vecchia Biblioteca in disuso. Scivolò lieve tra filari di libri, sollevando aliti di polvere. Scelse un volume e si perse sognante in storie di altri tempi.

Si nutrì delle emozioni di uomini, donne e bambini intenti a costruire simboli natalizi e immaginò le vibrazioni delle penne piumate che avevano descritto, su fogli spessi, le azioni, i pensieri e i sentimenti di un Popolo umano.

La luce del sole filtrò attraverso i finestroni dell’edificio, e sorprese quello strano lettore addormentato, col viso chino sulle curve di un romanzo aperto a metà.

Il Vento del Natale si scrollò dalla mente i sogni della notte e si avvicinò alla grande vetrata. Osservò le strade, la folla che impazzava, le luci ancora accese ovunque.

Non fu un bel risveglio.
Sgusciò rapido attraverso un vetro rotto. Attraversò la città e tornò tra le rassicuranti fronde delle querce antiche.
Il fogliame lo accolse in una culla comoda e avvolgente .

Come un bimbo, il Vento cadde in un torpore dolce e profumato.
Non si accorse dei preparativi che l’amico bosco si stava affrettando ad organizzare, per fargli una sorpresa.
Al tramonto, l’usignolo intonò note delicate che gli entrarono nell’anima.

Il Vento del Natale lasciò il verde giaciglio, dispiegò le ali e soffiò mulinelli di luce dorata intorno ai grossi tronchi: il suo dono agli alberi prima di andar via. Ma mentre stava per spiccare il balzo, improvvisa la Luna si gonfiò e sparse fili d’argento sugli alberi, sui cespugli e sul muschio spugnoso che si infilava ovunque.

Fu in quel perlato riverbero che folletti e fate uscirono dalle loro case segrete. Si presero per mano e volteggiarono nel bosco.
Girotondi d’allegria, al ritmo di canti natalizi, scolpirono la notte.

Interrompendo il pigro sonno, ghiri, tassi, marmotte e tutti gli abitanti del bosco si unirono alla festa. La natura intera si fuse con le note della gioia.

Il Vento, commosso, allungò le possenti braccia e si mise a dirigere quell’orchestra da favola, al ritmo del suo cuore che da tanto tempo non batteva così lieto.
E fu Natale.

Lontano, oltre i monti, il chiasso dei Popoli continuò a urlare le parole del silenzio.

 

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