Staccare la corrente all’inquilino che non paga è un reato?

POSSO “STACCARE LA CORRENTE” ALL’INQUILINO CHE NON PAGA?
Capita spesso che si “incrinino” i rapporti tra il proprietario di un immobile e l’inquilino, a cui lo stesso è stato dato in locazione (si parla più precisamente di locatore e di conduttore).
Il tipico esempio, infatti, è rappresentato dal venir meno dell’inquilino ai suoi obblighi contrattuali, in primis al pagamento del canone di locazione fissato.
In questo caso, potrebbe essere forte la tentazione, per il proprietario, di agire in maniera autonoma, decidendo di disdire i contratti di fornitura delle utenze domestiche a lui intestate, in modo da spingere l’inquilino (che si vedrebbe privato della corrente o del gas in casa, ad esempio) ad abbandonare l’immobile a causa del disagio che ciò comporterebbe.

Tale condotta, in realtà, configura il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 392 c.p., che punisce testualmente chi “al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose, con la multa fino a euro 516”.
La stessa Suprema Corte, infatti, ha avuto modo di ribadire che disdire, nel modo di cui sopra, le utenze, per spingere l’inquilino moroso a lasciare l’immobile, è qualificabile come violenza capace di “modificare la destinazione dei beni portati dalle dette utenze”, sottolineando che, il rimedio, rimane quello di ricorrere al giudice per avviare la procedura di sfratto (si veda in tal senso Cass. sent. n. 41675/2012).
Lo scopo della norma è quello di impedire che, in tutti i casi in cui un soggetto ritenga di esercitare un suo legittimo diritto, non lo faccia in maniera autonoma ed arbitraria, ma ricorra sempre all’intermediazione dell’autorità giudiziaria.
La “violenza”, di cui all’art. 392 c.p., deve essere diretta alla realizzazione del diritto di cui ci si ritiene titolari, configurando, invece ,la mera violenza privata di cui all’art. 339 c.p., in caso contrario (si veda in tal senso Cassazione penale sez. V 16 maggio 2014 n. 23923).
Per ulteriori approfondimenti, si rimanda agli art. 392 e 339 c.p., nonché alle sentenze citate (Cass. sent. n. 41675/2012; Cassazione penale sez. V 16 maggio 2014 n. 23923 ). (FONTE: L’angolo del diritto penale)

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