Storia de l’U. n° 13 (Il ritorno)

di Paolo Massimo Rossi

Storia de l’U. n° 13 (Il ritorno)

L’U. era partito, e ritornava anche, (tante miglia di rischi al costo di due) adesso aspettava il sonno in attesa stazionifera del penùlprimo treno. Sonnecchiava l’U. su una scomoda sedia di sala per attendenti. Un altro aspettante (l’A.), sorridendo ammiccante, lo guardava alludente, in piedi, aspettando che altra sedia si liberasse accanto (all’U.).

Allo scopo l’A. fissava le prorompenti proropaggini di petto forse in do, non è certo, di una lei sedente in preoccupata interrogante postura di labbra e di occhi. Si sollevarono le insofferenti proropaggini – seguite dal resto, tipo piazza culonica d’arme già debordante ai lati di seduta di pelle molto finta, molto incomoda, di cadente cellite – si sollevarono dunque dicendo: ”Lei incomodando mi stava”. Seguente il “Non s’incomodi”, dell’aspettante (A.) in piedi e presagente la rumorosità del fiato parlante, finalmente ammettendo: “L’incomodavo, sia pure”.
“Posso?” Disse l’incomodato all’U., appena la piazza si fuse più in là con vicolo maleodorante ma oscuro.
“No”. L’U. rispose con labiodentale insofferntà.
“Devo dirglielo – raccontando disse l’A.- e lei perdonerà le imprecisioni mancanti in un sogno non dimenticabile, tanta ne fu la bellezza che apprezzandola lei più sarà più in sé, febbrilmente bramando ogni passo succedente.”
L’U. aprì un occhio soltanto.
“Dunque”, il petulo in via confidando (l’ora andava al mezzodì) diceva, “Mi ascolti!”
Camminava l’A. nel fracontempo, giù e sotto le sedie, tre minuti tra il due e il passaggio d’uno, osservando le lance di gnomone fisse alle quattro, solitaria pazienza, in danza essenziale, proropaggini (di sesta) curiosamente miranti eccepienti.
“Scimunente”, l’U. pensò tra il sonno e la veglia ormai rivenente. È antic’ ogativa(pre) saper di sapere ogni cosa, pur nelle sue (di ognuno) passioni ribellantesi queste, a sangue del suo.
L’alludente (A.) continuò: “Ero con amicante (di quinta) gentile in attesa con me di happenendo il mio-nare(rando). Avrei cantato in un americano falsetto maccheroprensibile ai più una canzone romanticamente lovable, con voce cosi suadente e profonda che dubitavo con certezza fosse la mia. Ma si prolungava l’attesa, sì che (lei capirà) mi decisi ad entrare nel bagno completo di doccia. Cucina non gira d’arrosto, però con una lei di quarta, o no di sesta in ricordo no. Mi spogliai e la sconosciuta mi abbracciò, cercando le mie labbra e dicendo: “Ci conosciamo talmente!” Ero nudo, bagnato dopo l’ablazione, e lei ormai conosciuta notò: “Hai il culo a libretto, come un bambino o un cane rasato, adesso rivestiti”. Cosa che feci (ero pur in un bagno). Uscii nell’anti e lì riconobbi lei (l’U. n.d.a.) in attesa, seduto, con il sax tra les Pattes.

Fu allora che a lei dissi (a l’U.): “Jimmy, dio è negro, lo sai?”
“Mai posseduto un sax, al più blues, whisky e sogni come nei bar di Place Blanche, sì, o meno”, rispose l’U.

Intorno era ressa, l’incomodante (ex ormai), non trovava lo spazio per dirigersi verso un nuovo tram elettropropulsato. Erano in tanti a tuoversi, anche color di limitata ligenza, mani protese a bottone già pronto a chiuder la sciallatura della giacca di tweed.
L’U. si alzò e lentamente andò via.
Paolo Massimo Rossi Scrittore

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