Storia di nutrie e di esseri…poco “sapiens”

DI MARINA CIANCONI

 

Da ragazzina il posto verde più vicino a casa che potevo frequentare era Villa Doria Pamphilj, villa storica di Roma, immensa nei suoi circa 180 ettari. Per me rappresentava, e rappresenta ancora, un sano “sfogo” all’insopportabile caos cittadino.

La Villa, sotto il Pontificato di Papa Innocenzo X, che appunto era un Pamphilj, divenne la residenza di campagna di questa illustre famiglia.

Siamo a metà circa del 1600. È un luogo in cui ti puoi perdere e questa sua vastità mi attirava.
Nell’enorme parco c’è un laghetto con tanto di piccola isoletta, e c’era anche allora; passavo diverso tempo a girargli intorno e ad osservare i diversi animali che lo abitavano: carpe, a volte giganti, diverse specie di anatre, oche, germani reali, cigni, gallinelle d’acqua, testuggini palustri, topi, volpi, parrocchetti (negli ultimi anni), cornacchie grigie, per un periodo anche aironi cenerini, insomma era uno stimolante viavai di piacevoli presenze non umane… ed in particolare ero affezionata alla piccola colonia di nutrie.

Le osservavo nuotare, tornare a riva, avvicinarsi, anche con i loro cuccioli, alla gente che portava loro da mangiare (cosa di fatto errata da fare con gli animali selvatici…). Si sedevano sulle loro zampe posteriori e con le mani si pulivano la pelliccia e il muso da cui sbucavano, molto evidenti, i lunghi incisivi color arancio. Erano buffe.

La Nutria (Myocastor coypus) è un simpatico mammifero dentone che appartiene all’Ordine dei Roditori, alla Famiglia dei Myocastoridae e ne è l’unico rappresentante sul pianeta. È originaria del Sud America e vive in ambienti semi-acquatici.

È un’ottima nuotatrice ed utilizza i suoi piedi palmati per spingersi in acqua. Come ogni buon roditore i suoi incisivi le servono per “rodere” le piante di cui si nutre, in particolare le radici o i tuberi, ma è anche un animale che ha saputo adattarsi bene in altri luoghi dove purtroppo è stata introdotta dalla mano dell’uomo.

Difatti lei se ne stava tanto bene in Sud America, sua terra natia, dove peraltro la crescita della sua popolazione veniva tenuta a bada dai diversi predatori di cui cade vittima.

Però, a un certo punto Homo, diciamo, “sapiens”, ha avuto la brillante idea di catturarla ed esportarla in occidente, e quindi anche in Europa, per trasformare questa povera creatura in “animale da pelliccia”. Così, dagli inizi del XIX secolo la Nutria è stata allevata in cattività con questo poco nobile e poco etico scopo di vita. In Italia la sua era conosciuta come “pelliccia di castorino”, data la somiglianza con il Castoro, anch’egli vittima della nostra vanità e avidità e quindi trasformato in pelliccia. Questa in sintesi è la triste storia della Nutria. Purtroppo però non è finita qui.

Quando furono chiusi gli allevamenti nel nostro Paese, alcune nutrie vennero “genialmente” liberate nei nostri corsi d’acqua dolce, nei laghetti e negli stagni. La Nutria così si è ovviamente riprodotta, come è naturale che accada quando un animale selvatico trova buone condizioni per vivere. Dopo un po’ di tempo, ma sempre in modo “geniale”, Homo, sempre diciamo “sapiens”, si è accorto che la Nutria modifica l’ambiente in cui vive e impatta su alcune specie nostrane (invece noi…), inoltre fa un po’ come il Castoro, così a volte costruisce tane negli argini dei fiumi, piattaforme vegetali, scava tunnel e cunicoli, lunghi e interconnessi, dove rifugiarsi, mangia piante acquatiche e, pensate un po’, se si trova in luoghi dove queste ultime mancano, la Nutria si adatta a mangiare le nostre colture e può persino frequentare qualche risaia, se le capita a tiro. Ma va?

“Questa pelliccia a quattro zampe e con quattro lunghi dentoni arancioni fa tutto questo casino?”, deve aver pensato sempre Homo, ridiciamo “sapiens”. E così, pensa che ti ripensa, il “sapiens” italiano ha deciso di condannare a morte tutte le povere nutrie, con le loro scampate pellicce, presenti sul territorio nazionale.

Ad ottobre di quest’anno l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha approvato il “Piano di gestione della Nutria (Myocastor coypus)”. E che gestione! Il Piano (scaricabile on line) prevede per questo simpatico roditore sudamericano o la cattura con gabbie-trappola ed il trasporto verso camere a gas, dove verrà inesorabilmente soppresso (vi ricordano qualcosa della nostra recente storia umana?), oppure la fucilazione in natura sotto i colpi dei sempre più felici e intoccabili cacciatori.

Per ciò che concerne il paragrafo “Metodi di intervento suggeriti”, a pagina 20 del Piano si legge: “La soppressione delle nutrie catturate con il trappolaggio deve avvenire nel minor tempo possibile dal momento della cattura, mediante sparo o trasferimento in contenitori ermetici, dove vengono esposte al biossido o al monossido di carbonio ad alta concentrazione assicurando che siano risparmiati dolore, angoscia e sofferenze evitabili.”

Cioè, le nutrie vengono catturate dentro delle trappole all’improvviso e già solo questo mette l’animale in una condizione di paura ed innalza di molto il suo livello di stress, poi trasportate e messe in contenitori ermetici al buio senza via di uscita (Panico! Quindi angoscia!). Poi gassate! Niente aria! I polmoni collassano. Fine.

Se invece sparano loro va meglio. Forse vedono una compagna accanto morire o una mamma con i cuccioli vicino. Sale la paura e l’angoscia mentre la vita di chi è stata colpita se ne va. E gli spari, dove? In testa? Al cuore? Sono così perfette le mire da lontano dei cacciatori?

Oppure magari qualcuno sbaglia e le becca da qualche altra parte così che avranno molto più tempo per “godersi” gli ultimi terrorizzanti e agonizzanti attimi della loro vita. Poi mi chiedo: dov’è il punto senza dolore? Quale punto del corpo è “senza dolore”?

Noi tutti vertebrati siamo dotati di un raffinatissimo sistema nervoso così complesso che la capacità di sentire dolore ovunque si è evoluta per darci la possibilità di entrare in allarme e capire scientemente che qualcosa non va e ci sta facendo del male.

Questo sistema, ci dà la possibilità di metterci in salvo dal pericolo (e la paura associata è una di queste spinte ancestrali), dalle malattie e da tutto ciò che ci può nuocere ed è qualcosa a cui non possiamo sottrarci.

Quando tuttavia il dolore, fisico, psichico ed emotivo è veramente intenso, l’angoscia sale vertiginosamente e sale lo stress e si attivano tutta una serie di risposte fisiologiche come reazione estrema per scampare al pericolo e quindi alla morte. Se non si riesce a fuggire da chi ci aggredisce, tutto questo si trasforma in una inimmaginabile sofferenza e agonia.

Così mi chiedo: queste parole “assicurando che siano risparmiati dolore, angoscia e sofferenza evitabili” che senso hanno data la nostra oggettiva conoscenza di tutta la risposta fisiologica, emotiva e psichica inevitabile che si scatena a causa del dolore e nei momenti di terrore? O forse sono solo la sbiadita comparsa di un barlume di coscienza morale che finge di emergere dietro alla piena consapevolezza dell’atrocità delle nostre azioni?

La LAV (Lega Anti Vivisezione) ha più volte chiesto di rimuovere dal Piano di gestione metodi cruenti e letali, investendo su, e cercando, alternative a ciò che oggi chiamiamo “eradicazione” di specie alloctone (ossia di animali non originari del nostro paese da noi importati e la cui unica “colpa” è quella di voler vivere).

Si sono davvero cercate queste alternative che risparmiassero la vita di queste creature oppure ucciderle è la via più breve e meno costosa?
Ancora una volta abbiamo “usato” altri esseri viventi per i nostri comodi, sradicandoli dalle loro terre di origine, ingabbiandoli, costringendoli ad una vita “serrata” per farli diventare pellicce modaiole; poi li abbiamo liberati, così, senza prima comprenderne e conoscerne la reale natura, i loro comportamenti, le loro necessità, i cicli vitali ed ecologici e alla fine li ricatturiamo e li annientiamo.

Poniamo fine alle loro vite però ci raccontiamo di risparmiare loro “dolore, angoscia e sofferenza” e lo mettiamo nero su bianco. Forse così pensiamo che centinaia di nutrie moriranno tranquille. Peccato che le nutrie non sanno leggere, ma se anche fosse, non ci avrebbero mai creduto…

Infondo, che ne sappiamo di ciò che si prova di fronte alla morte? Nessuno è mai tornato indietro a raccontarlo e per ognuno di noi sarà l’esperienza unica più estrema e ignota.

Quindi con quale presunzione pensiamo che la Nutria intrappolata, ermeticamente chiusa, soffocata o colpita da pallini da caccia non provi dolore, angoscia e sofferenza?

È probabile che percepisca anche l’arrivo della morte. Nessuno su questa Terra può asserirlo, né immaginarlo. Nessuno. Allora se vogliamo essere spietati come siamo, non nascondiamoci dietro false parole simil-etiche perché non c’è nulla di etico nell’uccidere qualcuno solo perché “secondo noi” provoca danni (ma tutto è relativo…).

Anche i bambini fanno inconsapevolmente danni. E allora? Per tutti i danni che noi, pur autonominandoci “sapiens”, abbiamo causato a questo pianeta nel giro di pochi secoli (un’inezia di fronte alla lunghissima storia della vita sulla Terra) e ai suoi viventi portandoli quasi tutti sul baratro dell’estinzione (si parla oggi di sesta estinzione di massa), allora noi dovremmo, secondo il nostro stesso criterio, essere annientati, scomparire dalla faccia della Terra.

Così smetteremo di fare danni, proprio come accadrà per la Nutria e la sua voglia di vivere…
Negli anni 70 del secolo scorso molti animali da noi definiti “nocivi” sono quasi scomparsi perché li abbiamo perseguitati, cacciati e uccisi. Erano Aquile reali, Lupi, Orsi, Linci, Volpi, ecc. Erano animali natii della nostra penisola, gli autoctoni.

Oggi i “nocivi” sono altri e si chiamano “alieni” e sono alloctoni, provengono cioè (e molto spesso grazie a noi) da lontano, ma noi reiteriamo e riserviamo loro lo stesso trattamento, senza pensare seriamente a delle alternative valide alla loro morte.

Cambiano gli scenari, cambiano gli animali e le piante, cambiano gli anni, solo una cosa non cambia in tutta questa violenza: il piedistallo sul quale ci siamo messi e dal quale emettiamo un auto-referenziato, inesorabile e dispotico giudizio sulle vite degli altri viventi. Questo sì, quello no.

Allora mi chiedo se davvero per le nutrie (e per tutti quei “chi” che idealmente loro rappresentano) non ci siano potute essere altre soluzioni, più etiche, più empatiche, più compassionevoli e alla fine anche più giuste, perché infondo le abbiamo importate noi, mica hanno attraversato l’oceano a nuoto! Siamo schizofrenici nei nostri comportamenti verso gli altri esseri viventi.

Un giorno tornai al laghetto e le nutrie non c’erano più. Scomparse! Mi intristii. Mi sono sempre chiesta cosa fosse loro accaduto. Oggi ho una risposta forse e non mi piace affatto.

Così la storia della Nutria finisce proprio male… e con essa si anneriscono i ricordi che tanti ragazzini e ragazzine come me avevano della conoscenza, dell’interazione e della curiosità verso questi particolari animali arrivati, non per volontà loro, dall’altra parte dell’oceano.

In quelle giornate all’aria aperta intorno al laghetto la loro presenza ha contribuito a renderci felici.
Ecco, non raccontiamo questa storia ai nostri bambini perché nel loro entusiastico e pulito modo di vedere la vita negli animali, ci rimarrebbero profondamente male e forse si chiederebbero se valga davvero la pena crescere ed entrare in quel mondo così incoerente, poco empatico e per certi versi oscuro di noi adulti; noi che ci illudiamo di “gestire” la natura e tutti i viventi e che non ci accorgiamo quanto questa nostra limitata e, per certi versi ridicola, visione ci stia tornando indietro come un velocissimo boomerang senza più controllo.

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