Storie di amiche e di amicizia (ultima parte)

DI DANIELA LUCCHESI

“Ehi Irene dove sei? – la riscuote Samuela – avevi lo sguardo perso.”
Renata si gira appena verso di lei prima di rivolgersi a Claudia: “Ben fatto Claudia! Anch’io sono contenta di abitare in centro, è un ottimo investimento e ci sono tutte le comodità, ti consiglierò io la scuola per Alice.”
“A proposito di scuola, datemi un consiglio, sono indecisa se mandare Mirko all’asilo dalle suore o nel pubblico, forse le suore me lo seguono di più.”

“Ma scusa Elena, cosa stai aspettando? Perché non l’hai ancora iscritto? Ha compiuto 3 anni da un pezzo. Lo stai viziando troppo il tuo adorato primogenito, sempre con la nonna e la sua mammina. Scommetto che non ti farai tanti scrupoli col piccolo Leo.” replica Renata con malizia.
“Ehm, infatti l’ho già iscritto alla scuola pubblica, vicino all’ufficio di Andrea, così al mattino lo porterà lui.”
Irene non le segue più, sta pensando con tenerezza alle amiche di un tempo, alle risate tra i banchi di scuola, alle corse sfrenate del sabato sera nella sua prima auto, alle nottate brave in discoteca e agli anni dell’università con una Claudia comunista sfegatata che ora, magari vota pure a destra.

Si sta chiedendo, mentre assapora un ossobuco con riso basmati allo zafferano, come mai non si afferrino più e perché, sempre più spesso, negli appuntamenti rituali dei compleanni, nel bel mezzo di una conversazione perfetta nella sua disarmante banalità, abbia voglia di urlare.
Sono le mie amiche di sempre, che ora sono diventate donne, soddisfatte della loro vita, o almeno sembra. Si sono sposate all’età giusta, con l’uomo giusto, hanno trovato il lavoro sicuro, hanno fatto figli, mentre io mi dibattevo nelle mie inquietudini, sempre alla ricerca di qualcosa d’indefinibile e intanto lasciavo un lavoro e un uomo dopo l’altro.

Forse loro, più mature e più pragmatiche di me, hanno capito tutto.
Sento una nota stonata questa sera, le parole galleggiano vuote… C’è un velo che nessuno osa sollevare su vite così perfette, neppure io che sono sempre stata l’eccentrica del gruppo.
Perché rovinare la festa con domande inopportune: dove si trova la felicità, in un lavoro socialmente apprezzato, una famiglia, una bella casa? O forse sarebbe meglio vivere sole e indipendenti, libere di esplorare la vita in tutta la sua imprevedibilità? Un figlio ora mi assicurerebbe la felicità…

O sono un’ ingenua a pensare che con un figlio tutti i tasselli incompleti della mia confusionaria esistenza andrebbero a posto, come per miracolo.
“Allora cosa dite -propone Renata- lo organizziamo questo viaggetto per i nostri 40 anni a Barcellona?”
“A Barcellona?” fa eco Irene.
Il vino è delizioso, un passito dolce con una nota acida che pizzica il palato.
Forse è meglio partecipare alla conversazione, fingere interesse, cullarsi in un sogno roseo dove la

vita di ognuna è perfetta così com’è, perfino la mia.
Un figlio, anzi una figlia, per la precisione, riempirebbe sicuramente quel vuoto, quel buco nero che a tratti mi divora. E non mi basta l’amore di un marito affettuoso, quell’avido buco nero ora si sta risucchiando anche la mia tiepida felicità matrimoniale.

“Ehi, Irene, sei sempre la solita tu, viaggi tra le nuvole” la risveglia Renata.
All’improvviso dalle casse stereo del locale si diffonde la voce della Berté: “Non sono una signora…”
Che curiosa coincidenza… E la voce della loro cantante preferita di un tempo, copre quella delle sue amiche: “È un volo a planare/ Per essere inchiodati qui/ Crocefissi al muro…”
“Ehi ragazze la sentite? Vi ricordate quando la cantavamo tutte insieme nella mia A112?”
Ma nessuno sembra fare caso alla musica, né alle sue parole.
Samuela sta parlando dell’ingresso alla scuola materna di Francesca, la figlia minore:
“Per fortuna ha cominciato la scuola, non ne potevo più. “Io che sono una foglia d’argento/ Nata da un albero abbattuto qua/ E che vorrebbe inseguire il vento/ Ma che non ce la fa/ Oh ma che brutta fatica/ Cadere qualche metro in là/ Dalla mia sventura/ Dalla mia paura…”
“Pensate che ero così stufa di averla a casa che l’altro giorno l’ho mandata a scuola con la febbre.”

Irene mormora fra sé: “Povera piccola” ma Renata le rivolge uno infastidito: “Eh, ha parlato quella che non ha figli. Mi dispiace cara mia ma tu non sai proprio cosa voglia dire stare dietro ad un marmocchio ventiquattro ore su ventiquattro e forse non lo saprai mai!”
Irene sente le sue labbra piegarsi in un sorriso imbarazzato mentre le spalle s’irrigidiscono. Una frase, detta con noncuranza, una stilettata che le arriva dritta allo stomaco con la forza di un coltello dalla lama affilata.

Una parola le sale e le rimane strozzata in gola: “Stronza”.
Ma perché pronunciarla a voce alta e rovinare a tutte questa deliziosa serata?

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