Sui cani…della mia vita

DI MARINA M. CIANCONI

Qualche giorno fa ero tra le mie montagne ed in particolare sono salita al rifugio sul far della sera. La grande parete di roccia era diventata già di colore grigio azzurro, segno che il sole era tramontato e si era portato via con sé quel magico manto rosa che dipinge il monte poco prima dell’avvento del crepuscolo.

Con la mia famiglia ci siamo incamminati lungo l’ampio piano che guarda la montagna, alle nostre spalle gli altri monti disposti a corona, come in un grande abbraccio che sovrasta la valle.

C’era il cane con noi; c’è sempre stato un cane nella mia mente fin da quando ero piccolissima e poi, man mano, si sono concretizzati uno ad uno nella mia vita.

Quella sera, come ormai quasi ogni sera dopo il grande sisma di sei anni fa, regnava il silenzio tutt’intorno, parlava solo la natura attraverso il piacevole canto del vento estivo che passava, girava e ritornava a sfiorarci tutti. La notte si stava impadronendo del cielo, poche luci umane… quelle del rifugio.

Guardavo la grande parete, attratta dalle ferite lasciate dalle frane crollate giù, sotto le spinte della terra che aveva tremato, cercavo di contarle tutte, di capire quanto avevano cambiato il monte… mentre ero assorta in questi pensieri, si alza dalle cime retrostanti un richiamo profondo, lungo, quasi malinconico, che echeggia potente su tutta la valle, rimbomba nelle mie orecchie e nel battito del cuore.

Lo riconosco subito, presa da una grande emozione.
Un lupo chiamava, anzi ululava.
Siamo rimasti in silenzio, bloccati da questa voce ancestrale che per brevi minuti si è impadronita di tutte le montagne. Poi di nuovo solo il vento. Qualche attimo, e ancora un altro ululato, avvolgente e padrone.

Il cane mi guardava, so che capiva. C’è una cosa che le ho trasmesso, o meglio, dovrei dire “ricordato”, da quando l’ho adottata: ululare insieme. L’ululato è un richiamo esistenziale, raduna il branco e lo unisce, richiama i cuccioli, facilita il ritrovarsi in particolari luoghi di incontro, può essere usato come segnale d’allarme ed udito dai lupi anche a grandi distanze.

Essere un gruppo è la chiave che apre alla sopravvivenza e l’ululato ne è uno dei collanti. Ecco perché io ogni tanto ululo con il mio cane.

Le dico che “siamo un gruppo”, che viviamo insieme e ci armonizziamo, liberiamo le nostre energie interiori in un linguaggio antico che è profondamente radicato in lei e in qualsiasi altro cane.

Quella sera ascoltando quell’ululato per quei pochi minuti ho sentito un brivido emotivo che non era affatto di spavento, tutt’altro.

Era come se il lupo avesse concesso a me e al mio cane di ricongiungerci a quel passato comune in cui, più di diecimila anni fa, condividevamo le stesse selve, lo stesso mondo naturale, ancora integro. Per quei pochi istanti me ne sono sentita parte.

Il cane proviene dal lupo, questo si sa, e se lo si osserva nei suoi comportamenti, spesso è facile ritrovarci qualche traccia del suo più antico parente selvatico.

Di fatto entrambi non si sono mai allontanati troppo uno dall’altro, tanto che oggi rileviamo accoppiamenti tra cani vaganti e lupi da cui nasce prole fertile.

È lo spinoso problema degli ibridi di lupo, un problema generato dall’uomo che, con grande superficialità ed ignoranza, abbandona i cani ad un destino crudele.

La sopravvivenza senza un proprio compagno umano è dura, l’abbandono è vissuto come un esilio forzato, come una colpa e, in un animale dove la coesione del gruppo è l’essenza stessa della sua vita, questo equivale ad una condanna.

Alcuni cani vaganti si raggruppano tra loro, si rinselvatichiscono, ma questo non è essere un lupo.

I cani non vanno abbandonati, mai, ma accuditi e compresi nella loro natura.
I miei primi incontri con i cani sono stati da piccolissima, ovunque ne vedessi uno gli correvo appresso, senza alcuna paura, poi incontrai i cani di un amico di mio nonno, in particolare i loro cuccioli, erano dei Setter inglesi dal manto bianco e nero.

Li adoravo, passavo ore a giocare con loro. Persino l’odore dei cani mi attirava e tuttora mi attira. Il mio primo vero cane tenuto a casa era un Pastore tedesco a pelo lungo che rimase con me per più di un anno, poi tornò con il suo padrone. Era intelligentissimo e un gran giocherellone, soprattutto un bonaccione. Era grosso, con un faccione simpatico e due grandi occhi a palla. Era ubbidiente, equilibrato, sereno.

Lui fu il primo ad insegnarmi davvero chi sono i cani, a stuzzicare in me la curiosità di conoscerli meglio, di approfondire la loro vita, di tentare di capirli e comunicare con loro.

Fu un grande maestro, paziente e saggio, mai stanco, mi ha sopportato con grande comprensione nelle mie stranezze di essere umano.

Quando se ne andò, lasciò un vuoto dentro casa e dentro di me; compresi cosa significa la mancanza e il distacco da un cane; la sua foto da allora è appesa in casa sulla mia parete della significatività.

Un anno dopo lo andai a trovare a casa del suo padrone, che abitava lontano; appena mi vide mi corse incontro, cominciò a girarmi intorno come impazzito, girava e balzava, cambiava direzione e ritornava, una trottola felice, poi all’improvviso si alzò in piedi e muso a faccia con me, letteralmente mi abbracciò con le sue zampone.

Lo accarezzai e lo coccolai, giocammo insieme. In quel momento ebbi la certezza che i cani hanno una lunga memoria dei propri compagni di vita anche dopo parecchio tempo di assenza. Pur mancando loro la parola, posseggono una capacità incredibile di esprimersi in ogni modo possibile ed entrare di netto in comunicazione con noi.

Penso di non aver mai ricevuto in vita mia un saluto più caloroso, esplosivo e pieno di pura felicità come quello di quel giorno. Il suo nome era Joy, che significa Gioia. Joy aveva un cuore immenso.

Ci fu un periodo di stasi dopo di lui, ero impegnata con il lavoro e lasciai correre del tempo, ma non molto in verità. Accolsi a casa un nuovo cucciolo. Era stato abbandonato insieme al fratello nei boschi dell’Umbria, erano meticci di cani da caccia. Se non fossero stati trovati e salvati, così piccoli, sarebbero morti e finiti come pasto di qualche animale selvatico.

Era chiaro che qualche cacciatore si era liberato di loro. Quindi il piccoletto, con tre grosse chiazze nere sul dorso, un mantello maculato grigio, nero e bianco, ed una striscia candida che gli scorreva dalla fronte alla base del naso, con le orecchie a penzoloni e la pancetta tonda tonda, mi venne portato in un giorno di fine agosto dentro uno scatolone.

Lo misi nella mia vecchia panda, sul pavimento davanti al sedile anteriore, da lì mi guardava, ciondolando a ritmo dell’andare dell’auto. Era buffo e per niente spaventato. Così cominciò la nostra avventura insieme che durò più di tredici anni…

Per tutto il periodo del primo anno di vita fu un vero terremoto dentro casa, me ne combinava di tutti i colori; imparai da lui la prima lezione sui cuccioli: a loro non piace essere lasciati soli a lungo. E certo, è naturale! La mamma non li lascia mai per molto tempo soli, soprattutto nei primi mesi.

Comunque crescere un cucciolo è una cosa impegnativa, richiede molta pazienza, tempo e una buona dose di preparazione… agli imprevisti! Condividendo ogni giorno con lui ed osservandolo, compresi come l’abbandono e il distacco prematuro dalla madre che aveva subito erano un marchio, una ferita.

Questo accade in ogni cucciolo che viene allontanato prematuramente dalla madre, solo lei difatti può trasmettergli quelle regole, capacità e sicurezze necessarie per crescere.

Il piccoletto richiedeva continuamente la mia attenzione, se mi assentavo piangeva disperato…, insomma non era sereno; così decisi di farci seguire da una comportamentista; il suo aiuto e la sua preparazione, oltre ad aprirmi nuovi orizzonti sul mondo canino, ci permisero di trovare la nostra armonia, di fargli superare lo stress e le paure che aveva interiorizzato.

Crescendo divenne un cane serio, ma aveva i suoi tanti momenti in cui si inteneriva stando insieme, era come se mi lasciasse accarezzare il suo cuore, si lasciava andare e la sera ce ne stavamo a vederci la TV sul divano appiccicati. Aveva imparato a stare da solo, anche per diverse ore e quando tornavo mi veniva ad accogliere dietro la porta con grandi giri di coda e felicità.

Dentro casa non toccava più nulla e se ne stava tranquillo a sonnecchiare sul divano. Nella sua vita ebbe un coraggio straordinario: all’età di tre anni si ammalò di tumore; venne operato nel corso degli anni quattro volte.

Mi insegnò la capacità di sopportazione, la determinazione a oltrepassare l’ostacolo, aveva una tempra e una voglia di vivere straordinari.

Combatté la sua malattia con dignità, si lamentava molto raramente. Il suo veterinario si stupì di quanti anni riuscì a sopravvivere al tumore.

Purtroppo però l’ultimo intervento fu quello disperato, il tumore era tornato ma molto più aggressivo e veloce. Lo togliemmo, ma ritornò nel giro di poco con grande invasività. Non si poteva più intervenire chirurgicamente.

Era diffuso. Soffriva e molto, lui che aveva saputo sempre reggere il dolore; una sera lo sentii lamentarsi e piangere ininterrottamente per la prima volta, fu un colpo. Qualcosa scattò dentro di me. Nelle giornate seguenti non riusciva a dormire più.

Gli antidolorifici non erano sufficienti. Non c’erano più rimedi o panacee. Io non potevo permettere che i suoi giorni futuri fossero per lui solo un’agonia.

Noi non eravamo cane e padrona, eravamo compagni di vita, eravamo alla pari e avevamo un patto tra noi di eterno legame, al di là di qualsiasi evento infausto, questo nostro essere insieme ci definiva ed è ancora oggi una realtà.

Quando, dopo una bella pioggia, una nube grigia si scosta e fa scivolare un raggio di sole da oltre l’orizzonte, la luce si disperde in sette brillanti colori che da un capo all’altro del cielo fanno da ponte tra lui e me.

Questo è avere un compagno di vita che va oltre la vita. Il suo nome rimane inciso nel mio cuore.

Durante il periodo che trascorremmo insieme, decisi di dedicarmi al volontariato in uno dei canili della mia città. Sentivo di dover ripagare in qualche modo ciò che di terribile gli esseri umani fanno nei confronti dei cani.

Poi volevo vedere con i miei occhi come questi cani più sfortunati vivessero dentro queste strutture, quali fossero le loro condizioni di vita, quali le loro possibilità di riscatto.

Il mio volontariato consisteva nell’aiutare ovunque ci fosse necessità e lì era sempre tutta un’emergenza; arrivavano cuccioli abbandonati, cani malmessi e malati, cani vagabondi; il canile era sovraffollato e accadeva quasi sempre che alcuni cani venissero temporaneamente sistemati negli uffici; bisognava pulire spesso ovunque sporcassero; uno dei miei compiti fissi era poi portare i cani fuori a sgambare, in passeggiata dentro l’area del canile.

Le gabbie hanno un accesso verso delle piccole aree aperte cintate; a turno questo accesso, una gabbia per volta, viene aperto e i cani di quella gabbia possono uscire in quest’area chiusa.

Il problema è che, dato l’alto numero delle gabbie, la turnazione non era così frequente e potevano passare diversi giorni prima che una certa gabbia venisse aperta per fare uscire un po’ i cani.

Quindi noi volontari aiutavamo facendo uscire i cani di volta in volta. C’erano cani che non uscivano mai. Il primo giorno che entrai in uno dei bracci, una sorta di corridoi, su cui si interfacciano le numerose gabbie di cemento, venni assalita da una valanga di voci abbaianti, mugolanti e latranti così assordante e acuta che non riuscivo a sentire cosa mi stesse dicendo l’altro volontario che era con me; i cani, alla nostra vista, iniziarono a saltare in alto, ad ammassarsi sulle grate delle gabbie, erano tre, quattro per gabbia, qualcuno invece rimaneva zitto e spaventato in un angolo; centinaia di occhi imploranti erano puntati su di noi.

Chiedevano solo di uscire. Quei lamenti così forti e quella disperazione così urlata furono un pugno nello stomaco, rimandai a forza indietro le lacrime che mi stavano scendendo, ancora oggi se ci ripenso, mi sale un senso di angoscia e di tristezza per le condizioni in cui abbiamo ridotto questi amabili nostri compagni di storia, la nostra storia, che si è co-evoluta gli uni a fianco agli altri per diversi millenni.

Forse riflettiamo poco sul fatto che ciò che siamo potuti divenire oggi lo dobbiamo anche al prezioso aiuto dei cani nella nostra più recente storia evolutiva.

I cani ci hanno aiutato a cacciare, a difendere il territorio e le nostre famiglie, ci hanno aiutato ad allevare altri animali per poter mangiare e coprirci, ci hanno aiutato nel trovare risorse alimentari, ci hanno persino aiutato nelle nostre insensate guerre, rimettendoci spesso la vita; oggi ci aiutano anche in tantissimi altri modi che tutti conosciamo, possono essere i nostri occhi quando perdiamo la vista, possono ritrovare persone sotto le macerie o disperse sotto coltri di neve o per stati di varie calamità naturali, possono salvare vite umane in balia delle acque, possono aiutare nelle terapie di recupero di persone e bambini con difficoltà (pet therapy), possono persino fiutare malattie gravi di cui soffriamo.

I cani sono stati la nostra più affidabile ancóra di aiuto su cui ha poggiato la nostra storia di sopravvivenza. In molte tombe dell’antichità i cani venivano seppelliti accanto ai loro padroni, e non a caso.

Il cane è un essere vivente straordinario, la sua intelligenza, la sua emotività, la sua grande fedeltà al gruppo con cui cresce, le sue capacità sensoriali, la sua attenzione a tutto ciò che noi facciamo, il suo osservarci e capire e la sua totale abnegazione nei nostri confronti lo rendono una creatura fuori dal comune capace di andare oltre il nostro stesso pensiero, capace di interpretarlo questo pensiero, anche quando noi stessi non ce ne rendiamo conto.

Così al canile ho avuto tanti cani, li ho conosciuti, li ho rassicurati, ci ho giocato, li ho fatti sfogare… nonostante le condizioni in cui vivevano, privi di una famiglia, della libertà, molti della salute stessa, nonostante l’alto livello di stress quotidiano con cui convivevano, nonostante tutto ciò loro si sono rivelati saggi, amici e per brevi attimi mi sono apparsi anche un po’ felici.

Si accontentavano di quel poco che riuscivano ad avere. E mai, dico mai, dimostravano rancore.
Nominarli tutti è impossibile, erano tanti, tanti davvero, ma ognuno era una storia, era speciale.

C’era Quatto Quatto, giovane incrocio di pastore tedesco, che venne chiamato così perché quando vedeva qualcuno di noi era terrorizzato e si acquattava a terra, piano, piano, con pazienza, siamo riusciti a fargli prendere confidenza e fiducia in noi.

Poi c’era Panda che era una cagnolina bianca e nera molto simpatica e socievole; Fabio, un bellissimo Pastore del Caucaso, un gigante buono dal mantello lungo e folto, grigio e crema, ed una bella maschera grigia che gli incorniciava due occhi fieri e pacati; Bozzetto, così chiamato per un piccolo bozzo che aveva sulla testa, era un giocherellone affettuoso.

C’era Cigno, bianco con la mascherina nera, se ne stava sempre accucciato nel suo materassino, viveva fuori dalle gabbie, era malato e non si alzava spesso; c’era Nerone, un gigantesco Schnauzer nero, quasi cieco e anziano, quando lo portavo fuori camminava educatamente al mio fianco, senza mai tirare il guinzaglio, era gentile, un vero signore che si adeguava al mio passo, consapevole della sua mole e della mia amicizia.

Un giorno, mentre ero di turno, portarono un cagnolino tutto pelo, nero e focato, aveva perso la zampa posteriore destra, ma lui non ci badava. Camminava e tentava di correre comunque, si era ben adattato alla sua menomata condizione.

Lo chiamai Smolly, mi affezionai tantissimo a lui, aveva un carattere solare, era intelligente, vivace e simpatico. Amava uscire al guinzaglio e correre, poi ci sedevamo uno accanto all’altra per riposarci e lui si appiccicava a me, a volte sedendosi proprio sopra i miei piedi.

Mi diedi da fare per farlo adottare quanto prima da una buona famiglia e così avvenne. Ne fui felice, ma una parte di me avrebbe voluto averlo vicino per sempre.

Questo era il canile… un luogo non luogo, in cui transitavano storie di cani e umani che si incrociavano e si scambiavano sempre qualcosa, affetto, aiuto, cure e impegno con la prioritaria finalità di trovare a ciascuno di loro una casa e una buona famiglia umana.

L’adozione è il loro riscatto, entrare in un nuovo gruppo accogliente è per ciascuno di loro come ritrovare la sua famiglia. È vitale.

L’adozione è una chance per cuccioli, cani adulti e anziani. Tutti loro hanno molto da dare e si meritano altrettanto. Però, non tutti venivano adottati, anzi. Molti passarono tutta la loro vita o gran parte di essa chiusi dentro quelle gabbie di cemento e ferro, senza neppure una cuccia per poterci poggiare sopra le loro ossa stanche.

Molti morivano poco dopo esserci entrati in canile, debilitati da malattie, dagli stenti e dalla fame che li avevano aggrediti dopo essere stati abbandonati ed aver vagato solitari e persi anche per anni.

Tanti mollavano, entravano in depressione, ho visto cani paralizzati dalla paura, non riuscivano a muoversi, con gli occhi bassi e tremando si attaccavano al muro e il muro ce lo avevano dentro, motivarli ancora non era semplice.

Tutti questi animali sono stati e sono tuttora vittime del nostro egoismo, della nostra superficialità, del nostro errato pensare che un cucciolo di cane sia un giocattolo per i nostri figli, abbandonato alla prima difficoltà; i cani lasciati andare, i cani legati alle catene, i cani mendicanti, i cani che si nascondono, i cani che incontrano i lupi, i cani che vengono mangiati in molti paesi del mondo, i cani da combattimento, i cani per le corse, i cani trafficati, i cani venduti, i cani maltrattati, i cani investiti, i cani uccisi.

I cani che, sotto i nostri occhi assenti e distratti, scompaiono nella più totale indifferenza in questi luoghi non luoghi costruiti da noi. Nessuna voce per loro, nessuna pietà. Il cane non merita tutto ciò, noi non meritiamo un tale grande amico accanto.

Il cane è un essere speciale particolarmente per la sua capacità di “sentire”, di “provare” emozioni positive dirette più verso l’umano che verso se stesso; il suo dare senza altri fini lo rende unico e irripetibile.

Ho iniziato a scrivere questo articolo il 26 agosto, Giornata mondiale del Cane, forse perché avevo bisogno io di ringraziare tutti i cani che hanno fatto parte della mia vita, per avermi dato e insegnato tanto; il mio è un percorso con loro che ancora continua; su di loro c’è un’ampia e vastissima letteratura che ci porta a conoscerli meglio e di più, ed io suggerisco di leggere su di loro, soprattutto prima di prendere con noi un cane; averlo accanto è un quotidiano confronto con qualcuno che sa, perché ereditato da millenni, come entrare nella nostra anima, ma noi dobbiamo fare la nostra parte e attivamente addentrarci nel suo mondo per poterlo capire e accogliere.

La propria personale amicizia con questi compagni è per ciascuno di noi una storia a sé, che difficilmente si può comprendere se non si ha mai avuto accanto un cane.

Il cane è prima di tutto qualcuno; qualcuno che ci rende migliori, che ci porta a riflettere sulla nostra condizione di umani. Il cane è quel ponte tra noi e quell’universo animale che ci siamo lasciati dietro, senza il quale però non potremo mai sopravvivere.

Mentre scrivo, lei se ne sta accucciata sotto la scrivania, è l’ultima arrivata, adottata più di un anno fa; dei suoi primi tre anni di vita non so nulla, dei suoi quattro anni successivi conosco il canile dove è stata.

Mi sono chiesta spesso cosa abbia passato in questi anni, non me lo può dire, ma a suo modo, mentre alza gli occhi e mi osserva, forse si starà chiedendo la stessa cosa su di me… il passato però ora non conta più. Lei sta bene e io pure, insieme.

Smolly, luglio 2009
©® Copyright Foto di Marina M. Cianconi

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