Sujata Massey, Le vedove di Malabar Hill e Lamia Berrada-Berca, Kant e il vestitino rosso

DI MARIO MESSINA

Il caso ha voluto che leggessi questi due libri in sequenza.
Come se uno fosse l’appendice dell’altro.

Due storie lontane quasi un secolo, ambientate in continenti diversi ma accomunate da un unico filo conduttore: l’oppressione della donna.
In nome di una religione maschia.
Non importa quale.

Una religione che impone alle protagoniste una gabbia dorata.
Dove quel pò di sicurezza che viene sbandierata ha come contrappeso un sacrificio assai grande: la perdita di ogni libertà.

Non importa se d’oro o di platino, una gabbia sempre tale rimane.
Che siano i precetti di San Paolo (“mogli asservitevi ai vostri mariti”), le regole indù o le imposizioni mussulmane, le ferite sulla pelle delle donne sanguinano ugualmente.

Nei due libri si intravedono delle vie di fuga ma nessuna di queste può essere invocata in via esclusiva.
Il sapere è il primo grande grimaldello ma diventa un’ arma spuntata se non si abbina ad un forte pensiero critico e ad una autonomia sul piano economico.

Allo stesso modo il solo benessere economico non servirà a comprare la libertà di chi vive in una famiglia di carcerieri per devozione religiosa.
Il sapere illuminato/illuminista si configura così come quel quid pluris in grado di rompere le sbarre.

Che sia l’amore di un padre o un capolavoro di Kant basta una scintilla perché si possa incendiare la foresta. Regalando la libertà a tante donne schiave di religioni geneticamente barbare.

Immagine tratta dal web

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