Svetlana Aleksievic,
La guerra non ha un volto di donna.
Bompiani
Che la Storia sia oggetto di revisione è inevitabile.
Che venga riscritta, invece, risponde a finalità ben meno nobili.
Non è divenuto infrequente, così, che eventi cardine del Novecento vengano piegati ad esigenze contingibili e di comodo.
La guerra in Ucraina ha rappresentato, sicuramente, una di queste ultime ipotesi.
Fomentando, a livello occidentale, una russofobia di fondo, ha prestato il fianco a narrazioni volte a ridimensionare il ruolo dell’URSS nella vittoria sul nazismo e nel minimizzare i danni cagionati dalla Germania (e dalle sue componenti banderiste) nella Seconda Guerra Mondiale.
Come devoto della verità storica mi pare, così, doveroso ristabilire i termini della questione “dando a Cesare quel che è di Cesare”.
Il libro di Svetlana Aleksievic, senza sviolinate di sorta, ci fornisce l’occasione giusta per invocare la massima latina per cui: <magis amica veritas>.
La scrittrice ucraino-bielorussa, insignita del nobel per la letteratura nel 2015, non certo di marcate simpatie sovietiche, ha compiuto una operazione di grande onestà intellettuale ben distante dal tenore di certi libri cari ai revisionisti prezzolati di regime.
Il libro si configura, infatti, come una raccolta di testimonianze.
Queste risultano costituire quasi l’intero corpus del testo.
Le presentazioni sono minime, delicate, mai invadenti.
Un modo di lottare contro il tempo.
L’ anagrafe è, infatti, impietosa.
Le protagoniste sono ormai anziane e, se non vogliamo cedere alle letture di comodo, è alle parole delle superstiti che dobbiamo regalare l’ immortalità.
Evitare che vadano disperse.
La scrittrice sceglie volutamente una prospettiva di parte: quella delle donne sovietiche che, in molteplici forme, contribuirono alla sconfitta del nazismo.
Il risultato che si ottiene è, però, quello di regalare un tributo ad un intero popolo che pagò con ben venti milioni di morti la resistenza al mostro nazista.
I numeri parlano da soli: <Nell’ esercito sovietico quasi un milione di donne ha prestato servizio nelle varie specialità, comprese quelle più maschili> (pag.6).
Un tale sollevamento era inevitabile.
Le vicende familiari della stessa Autrice risultano paradigmatiche:<Nella nostra stessa famiglia, il nonno ucraino, padre di mia madre, era morto al fronte ed è sepolto da qualche parte in terra magiare, mentre la nonna bielorussa, madre di mio padre, se l’ era portata via il tifo, in una formazione partigiana, e dei suoi tre figli, due erano scomparsi senza lasciare traccia nei primi mesi della guerra e uno solo era ritornato, mio padre. Undici lontani parenti con i loro figli erano stati bruciati vivi dai tedeschi, alcuni nella loro casa, altri nella chiesa del paese. È così in ogni famiglia. In tutte le nostre famiglie> (pag.7-8).
Date queste premesse, è la scrittrice stessa ad indicarci il fine perseguito:<L’argomento del mio libro non è la guerra, ma la persona nella guerra. Non scrivo una storia della guerra, ma una storia dei sentimenti. Sono uno storico dell’anima> (pag.16).
Se nella “civile” Europa il discrimine era razziale lo stesso non può dirsi per le nostre interlocutruci: <sono sovietiche e al tempo stesso russe, bielorusse, e ucraine e tagike…> (Pag.22).
Come ha modo di ribadire una partigiana: <Quando ci hanno detto che i tedeschi avevano preso la nostra città, ho anche saputo di essere ebrea. E prima della guerra vivevamo tutti in concordia: russi, tatari, tedeschi, ebrei…Eravamo tutti uguali. Oh, ma le pare?!> (pag.95).
La crudeltà nazista è indescrivibile, la resistenza non può attendere.
Non potevi aspettare di divenire adulta.
Quando vedevi il tuo villaggio bruciare ti arruolavi pur in tenerissima età: <Eravamo giovanissime quando siamo andate al fronte. Bambine in crescita. Si figuri che durante la guerra ho preso dieci centimetri… Me li ha misurati mamma, al ritorno a casa> (pag. 61).
Volontarie, non coscritte. Giova ribadirlo.
<La guerra impiega molta gente… E le cose da fare sono molte… […] Da quelle parti si spara e si ammazza, si mina e si spina, si bombarda e si fa esplodere, ci si scanna all’arma bianca, ma non è tutto. […] L’esercito marciava davanti, ma subito dietro c’era un “secondo fronte”: lavandaie, cucinieri e cuciniere, postini e postine, meccanici maschi e femmine> (pag. 225).
Le donne rivestono tutti i ruoli, alla pari. Operativi e non.
In un contesto di partecipazione totale: <Il popolo ci aiutava. Se non ci avesse aiutati, il movimento partigiano non avrebbe resistito. Il popolo combatteva al nostro fianco. […] Ragazze, soffriremo insieme, fino alla vittoria.
Raccoglievano dalla terra le loro minuscole patate per noi, ci regalavano il pane. Nel bosco raccoglievano, sempre per noi, tutto quello che potevano. Uno diceva: “Io vi regalo questo”. “E io questo”, diceva un altro. […] Eravamo un intero esercito nel bosco, ma senza di loro saremmo morti. Loro seminavano, aravano, accudivano noi e i loro figli, ci hanno vestiti per tutto il tempo di guerra> (pag.345).
Un ragionamento che la vulgata revisionista tende, non a caso, a celare quando si tratta, anche, della resistenza italiana.
Nascondere che furono fenomeni di massa che godevano dell’ appoggio popolare.
Per queste ragioni ritengo che una pacificazione di comodo non debba essere neanche contemplata.
Se vogliamo rendere onore a quelle donne e a quei venti milioni di morti dobbiamo continuare ad odiare.
È un sentimento umano, fisiologico.
Come l’amore o la fede politica.
Quelle donne odiavano i nazisti.
Allo stesso modo non si può invocare pace tra chi si riconosce nella Resistenza e chi invoca padri spirituali repubblichini.
Odio. Nient’ altro che odio.
Immagine tratta dal web
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