Tomato soup e pop art

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

A differenza di ciò che, normalmente, si pensa, le prime manifestazioni della Pop Art sono già presenti in Inghilterra, verso la metà degli anni ‘50, per quanto il fenomeno artistico vero e proprio si sia, innegabilmente, sviluppato, in America, negli anni ‘60.

La diffusione mondiale, ed il conseguente, sconcertante impatto, determinarono una tale notorietà del movimento, da rientrare, a pieno diritto, nel lessico quotidiano.

La Pop-art parte dal principio che tutti noi, quotidianamente, entriamo in diretta relazione con oggetti industriali e messaggi pubblicitari, ritrovandoci sottoposti ad un continuo bombardamento di immagini potenzialmente attrattive; più o meno il principio del Tour Zoo TV, degli U2, nel 1993: chiunque abbia assistito ad uno di quegli straordinari concerti, è in grado di testimoniare l’incredibile suggestione provocata dai trentasei monitor presenti, a supporto del palco d’ordinanza.

Personalmente, quando comparve, dal vivo, Morleigh Steinberg, la splendida danzatrice che interpretava la danza del ventre di accompagnamento al brano Misterious Ways, me ne accorsi solo dopo qualche minuto, ipnotizzata com’ero, dalle immagini, della stessa, proiettate, sui teleschermi, senza sosta.

Una sorta di ottovolante visivo, in grado di confondere immagini e realtà.
Allo stesso modo in cui i messaggi ci condizionano, per mezzo di giornali e televisioni, gli artisti della Pop-art propongono la rappresentazione di oggetti, anche i più banali, ma moltiplicati all’infinito, tanto da raggiungere un’attenzione insolita, rivelando un’esistenza, fino a poco prima, ignorata.

Andy Warhol si rivela come uno dei più autentici rappresentanti della nuova corrente, scegliendo la tecnica serigrafica industriale, a scapito dell’espressione dei sentimenti individuali.

Accomuna la propria arte al fenomeno massmediatico, ripetendo continuamente i medesimi oggetti, alla stregua di un messaggio pubblicitario, fino ad arrivare, dopo il 1962, a spersonalizzare la propria partecipazione alla realizzazione, tramite l’utilizzo di serigrafie richiedenti un intervento personale minimo.

“ Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte “, è ciò che lo stesso Warhol dichiara, in particolare riguardo ai ritratti di Marilyn Monroe, immortalata poco prima della prematura fine, attraverso tecniche cromatiche, mutuate dalla stampa, che ne accentuano la dimensione tipica del format rotocalco.

Non è tanto l’immagine reale, ad essere rappresentata, quanto l’apparenza consumistica; una riproduzione popolare, esclusivamente di consumo, trionfo dell’apparenza sull’essenza.

Simbolo lampante del concetto, il quadro “ 100 lattine di minestra Campbell’s, in cui l’artista ripete, ossessivamente, il medesimo oggetto, per l’appunto una lattina di zuppa Campbell’s, scelto dall’Enciclopedia per ragazzi I Quindici, che tante soddisfazioni, e ricordi, ha dato alla mia generazione, per illustrare il fenomeno in questione.

Pur avendola consultata, prevalentemente, negli anni ‘80, risultava impossibile ignorarne l’epoca di pubblicazione, risalente a circa dieci anni prima, le cui prove erano inconfutabili.

A parte alcune, curiose, disquisizioni sulla Pop-art in questione, che ipotizzavano burle a danno di coloro i quali tendevano a dare importanza agli oggetti di uso quotidiano, l’immagine più incredibile era quella dell’opera sopra citata.

Nella foto allegata, si vede, chiaramente, essendo stata scattata all’interno della sala da pranzo di una casa privata, di cui costituiva ornamento, l’impietoso stipite della porta che ne occulta un lato, oltretutto con la presenza degli occupanti la suddetta abitazione, consapevolmente, e spavaldamente, ignari del valore storico, ed economico dell’oggetto.

Del resto, i riconoscimenti, spesso, richiedono tempo, e all’epoca de I Quindici, non credo che, del suddetto tempo, ne fosse passato più di tanto: basti pensare che a pagina 266, del volume 13 – Guardando si impara, viene proposto un simpatico gioco d’osservazione, diretto a verificare la capacità di riconoscimento di alcuni marchi pubblicitari.

A parte il logo dei Biscotti Lazzaroni, che io insistevo nel confondere con quello delle sigarette Nazionali – la nonna fumatrice, in questo caso, contribuiva a confondere le idee – ed il simbolo del caffè Paulista, i cui Caballero e Carmencita continuavano, imperterriti, a dominare l’immaginario pubblico, quello dell’acqua Giommi ( apri l’occhio, bevi Giommi ) somigliava, temporalmente, ad un residuato bellico, lasciandomi, decisamente, sconcertata;
per anni, ha messo in dubbio la reale percezione della mia giovinezza.

Approfitterò per far valere questa mia presunta vetusta’, alla prossima riunione condominiale, dove l’esperienza fa sempre comodo…

Immagine tratta dal web

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