Torniamo ad incontrarci nelle #piazze

DI MARINA AGOSTINACCHIO

 

Possiamo ancora portare il dibattito, lo scambio di idee in piazza? Riappropriarci di un’informazione affrancata dagli influssi del digitale?
È questa ultimamente la domanda al centro della discussione filosofica.
Riportare la filosofia in piazza significa riportare la palla al centro sull’ importanza del confronto, all’ interno di un territorio.
In un’epoca in cui si crede che parte del mondo occidentale abbia raggiunto una percentuale di alfabetizzazione e di offerta formativa abbastanza elevata, ci rendiamo conto di come questa convinzione sia debole e poco sostenibile.

Penso ora all’importanza di una comunicazione onesta, disponibile all’ascolto. Penso alla ricerca di parola che dica documentandosi, alla possibilità di parlare e di confrontarsi, argomentando, riferendosi a fonti certe; soprattutto penso alla parola capace di arricchirci, “aperta” anche ad opinioni diverse, se queste poggiano su una sincera ricerca di verità; verità che fanno riferimento a un sapere serio e non opportunistico o deficitario…

Quanto ci manca tutto questo. In balia di tuttologi, persone che si autoreferenziano dovunque e comunque, ci scopriamo davvero disorientati.
Non ci resta davvero che internet come unica fonte del sapere? Non ci restano che i social, il sentito dire, per riuscire a disquisire di salute, di politica, di economia, di argomenti di cultura in genere? Nella mia città, prima del covid, trovavo spesso in centro un signore che, come in un’Agorà, raccoglieva gente intorno a sé e proponeva temi diversi di discussione ai passanti.

Ed era interessante vedere come si intrecciavano pensieri, argomentazioni tra il pubblico. Ascoltando, ero sicura che i dibattiti non si riducevano a un semplice cicaleccio, ma esprimevano il desiderio di “mettersi in gioco” di ciascuno, di dire, nella sincera ricerca di un confronto, per un desiderio di andare oltre il monologo interiore, forse anche per la curiosità di vedere cosa si sarebbe incontrato esplorando il pensiero dell’altro.
In quel momento la piazza si animava di idee.

Ecco, basterebbe anche solo questo movimento intimo, a mio avviso, questa volontà di essere “persona”, uomo, donna capaci di relazione, confronto, vitalità, impulso verso l’altro, a rinnovare la spinta per una rinascita.
Secondo la Arendt, proprio l’età moderna sarebbe il luogo della “perdita o il declino della sfera pubblica”. E in essa, libertà ed eguaglianza sarebbero le autentiche protagoniste di una civiltà progredita.

Parlare, persuadere, interagire… Così i cittadini, affrontano problemi di interesse comune, esprimono la propria identità attraverso il libero scambio di idee, il dibattito, la decisione condivisa.
La Arendt parla di “perdita o alienazione del mondo” a proposito di questo venir meno della dimensione del confronto pubblico. Cade un mondo comune generato dall’uomo, un mondo fatto di oggetti, di creazioni, dei fondamenti che regolano la propria vita, della dimensione privata e pubblica regolata dalle leggi; mancando il dibattito, viene a mancare quello spazio pubblico finalizzato all’azione e alla deliberazione politica.

Dice Arendt: “La rivitalizzazione della sfera pubblica, della sfera nella quale può fiorire la pratica della cittadinanza, richiede sia il recupero di un mondo comune condiviso (ovvero il superamento dell’alienazione dal mondo), sia la creazione di numerosi spazi della presenza nei quali gli individui possono rivelare la propria identità e stabilire rapporti basati sulla reciprocità e la solidarietà”.
Tornare a ritrovarsi corrobora la pratica della “cittadinanza attiva e dell’autodeterminazione democratica”. Per raggiungere una condivisione della cultura pubblica, luogo del pensiero di ciascuno e delle visioni personali di scenari futuri, è necessario assumere il punto di vista dell’altro.

Solo provando a fare nostro il punto di vista dell’altro, riusciamo a spostare continuamente il baricentro da una visione individualistica a una visione allargata del pensiero, delle attese, delle prospettive altrui. Ed è proprio in questo spostamento che la nostra “immaginazione morale” ci permette di tentare di comprendere i valori, i sentimenti, gli interessi, le prospettive dell’altro. L’immaginazione mette in una comparazione attiva le persone, dà forma a oggetti, alle idee, offre la capacità di prevederle, “…dà un senso e un significato a qualcosa che ancora non percepiamo”.

Mi soffermo ancora sulle riflessioni della Arendt quando parla di trasmissione di una dimensione culturale pubblica condivisa. Come fare a farla sopravvivere nelle epoche? Per mezzo del mondo del ricordo pubblico delle vicende umane, costruito e conservato tra generazioni, è possibile la sopravvivenza di una memoria collettiva capace di “assorbire e far risplendere attraverso i secoli qualsiasi cosa gli uomini abbiano voluto salvare dalla rovina naturale del tempo”.

L’incontro con l’altro richiede l’utilizzo della nostra immaginazione morale, afferma Arendt. Ciò significa rappresentare e provare a comprendere scenari possibili, gli interessi, i valori di un’altra persona, prefigurandone il sentimento. L’immaginazione rende vivo il confronto, connette, raffigura, anticipa idee, oggetti, relazioni, dà un senso a qualcosa che ancora non percepiamo. Ci aiuta ad ordinare concetti e dare forma a nuovi significati.

Socrate affermava che “E’ meglio subire un torto che fare un torto”…“essere in disaccordo con tanti piuttosto che, essendo uno, essere in disaccordo con sé stesso”.
E’ necessario tornare a una cultura pubblica della cittadinanza democratica dove sia garantita la parola dell’altro nel rispetto dell’altro. E finalmente rigenerare i luoghi delle nostre città per farne mete di dialogo.

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