Treni e stazioni per correre da te

DI GIOVANNI BOGANI

Giardini Margherita

So anche che dopo aver suonato troppe canzoni persi il treno; so anche che rimasi con quei ragazzi a passeggiare per le vie di Bologna di sera. So che, quando venne notte, una notte calda d’estate, avevo conosciuto quella ragazza con gli occhi blu cristallo, con gli occhi di ametista, con gli occhi di lavanda e menta, con gli occhi liquidi, trasparenti e pieni di vibrazioni come le meduse, appena sotto la superficie del mare.

So che parlammo di letteratura: lei che veniva dal Piemonte parlava di Fenoglio e di Pavese, ma anche dei francesi che visti da lì erano più vicini: Camus, Céline, Proust. E io balbettai qualcosa di Ungaretti e di Montale, forse le parlai di Helen Keller, o di William Saroyan. Avevamo diciotto anni: lei aveva davvero Pavese e Fenoglio nelle vene, io ero molto più povero di libri, di pagine da donarti. Mi emozionai quando passammo da via Petroni, perché la cantava Francesco Guccini.

“E in via Petroni si svegliano, preparano libri e caffè”, e io mi immaginavo quella strada, all’alba, che profumava di caffè e di libri. Forse mi immaginavo con te, una mattina presto, cappuccino e Céline fra le tue mani. “E io danzo, con Snoopy e con Linus”, cantava Guccini. Io dentro me danzavo, proprio come Snoopy quando tira il naso su, verso il cielo.

Venne mezzanotte, poi l’una. I suoi amici conoscevano un passaggio, un’apertura nella recinzione dei Giardini Margherita, un grande parco in mezzo alla città.

Da quel buco entrammo tutti, dentro il parco spettrale, illuminato come in “Melancholia” di Lars von Trier, che all’epoca aveva ancora vent’anni. Trovammo un prato dove stenderci. Tutti avevano i sacchi a pelo. Tutti tranne me.

Mi dicesti “se vuoi, posso darti il mio”. Entrasti nel sacco a pelo della tua gemella. Io dormii nel tuo. O meglio, guardai le stelle e pensai a com’è strana, la vita. Mentirei se ti dicessi che si sentiva il tuo odore, in quel sacco a pelo. Quel sacco a pelo sapeva solo di pulito, e di futuro.

Al mattino prestissimo ci alzammo e andammo tutti a lavarci a una fontana. Eri con la tua gemella: stessi occhi color del sublime. Stessi capelli lunghissimi, neri. Stessa pelle bianchissima, stesse gambe lunghe nei jeans. Stessa delicatezza, nel diteggiare note di pianoforte nell’aria.

Mi lasciasti un bigliettino, un foglio a quadretti su cui avevi scritto, con una grafia precisissima, “A te che mi hai ascoltato cercando di capire uno che parla al buio e non sa cosa dire”. Era la frase di una canzone di Roberto Vecchioni, che ancora non avevo mai sentito. L’ho tenuto per anni, quel fogliettino a quadretti, con quelle poche parole, quella grafia minuta e precisa.

Carte e vento volan via nella stazione

Passò anche quel giorno. Il pomeriggio, alla stazione, tutti ci salutammo. Tu rimanesti in disparte, per ultima. Tua sorella mi abbracciò forte.

Tu all’ultimo istante mi venisti incontro, mi desti un bacio per un millisecondo e scappasti via. Un bacio sulla bocca, le labbra premute, un bacio che sapeva di Ungaretti e Céline, di Camus e di Proust, un bacio che sapeva di fili d’erba di un parco di notte, un bacio che sapeva di pianure piemontesi a me sconosciute, un bacio che sapeva di tutta la vita che avevo inseguito e non avevo mai conosciuto.

“Il cielo pone in capo / ai minareti / ghirlande di lumini”, scriveva Ungaretti in una delle sue brevissime poesie, “Notte di maggio”. Quel bacio mi mostrò, nella notte, un paese tutto illuminato, il paese in cui avrei voluto vivere.

Passarono mesi prima che trovassi il coraggio di venire a trovarti. Tu, mamma, non sapevi niente, naturalmente. L’estate stava finendo, io con un macchiettino minuscolo di soldi andai in Francia. Il treno arrivava fino a Marsiglia. Lì avevo appuntamento con un amico: non c’erano telefonini, e l’amico mi aspettava il giorno prima. Finimmo in Provenza, senza un soldo, ad Arles, ad Aix en Provence, ad Avignone. Non avevamo più soldi, non avevamo più da mangiare.

In una strada di campagna trovammo un campo di more, e ne raccogliemmo un’infinità: mangiammo more per un giorno intero, e il giorno dopo rubammo della frutta a un mercato. Ti sarebbe preso un colpo, se tu lo avessi saputo.

Treni presi senza pagare il biglietto, nascosti nei bagni, uscire alla stazione giusta facendo mentalmente il conto delle fermate. Poi da quella follia di vacanza in Francia l’altra follia, il treno preso per arrivare da te, dai tuoi occhi color delle meduse.

Passare la notte alla stazione di Nizza, seduto per terra, il treno da Marsiglia arrivava alle nove di sera, quello per Torino partiva alle sei di mattina. Nove ore con un panino al paté de foie gras, da centellinare per ore e ore, il panino più memorabile della mia vita.

E poi Torino, mai vista prima. E il treno locale – tu, mamma, a casa, al mare, con papà – e io per la prima volta dentro un altro mondo, in una pianura grigia di pioppi, l’estate improvvisamente diventata autunno, e il treno con il vapore dentro, fra una carrozza e l’altra, che sembrava già la nebbia.

Quei quintali di nebbia che avrei respirato, carezzato, assorbito, tutte le altre volte che sarei venuto a Torino. Lì non c’era nulla, in quel paesino scansato anche dal Po, che correva poco lontano. C’erano solo i tuoi occhi.

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