Trenini

DI CARLO MINGIARDI

A papà piaceva giocare con me come fosse un bambino. Ho sempre amato questo suo aspetto, così lontano dall’ immagine che dava di se da maresciallo dell’esercito.

La sera quando rientrava dal lavoro c’era il solito rituale: il controllo dei compiti del giorno e quello spazio che ci dedicavamo a fare le cose più impensate, dalle capriole sul letto alle battaglie infinite a soldatini.

Abitavamo dentro la caserma Piave in un appartamento grandissimo, pieno di stanze anche inutilizzate, perché i mobili erano pochi e modesti.
L’ultimo stanzone era adibito a ripostiglio e a laboratorio per i lavoretti di qualsiasi genere che faceva, perché si intendeva di qualsiasi cosa.

Lo stanzone era tenuto rigorosamente chiuso a chiave, perché diceva che potevo farmi male con gli attrezzi e quindi l’accesso era consentito solo sotto la sua supervisione, anche se sapeva che la mia indole da bravo ragazzino non avrebbe mai creato nessun problema.

A volte ci passava la domenica intera a fare le sue cose. Però notai che ci fu un periodo, che con una scusa o quell’altra mi negava stranamente di entrarci, adducendo scuse sempre diverse.
Ma la cosa passò in secondo piano perché avevo altre cose per la testa: il gioco prima di tutto.

Fu così che arrivò il giorno della Befana, festa che noi ragazzini di quell’epoca aspettavamo come la manna dal cielo: era il giorno più bello dell’anno perché sapevi che arrivava il giocattolo più importante, quello che avevi desiderato sempre.

La notte non riuscivi a prender sonno perché l’eccitazione era troppa: infatti, quando arrivava la mattina, correvi in cucina dove ti aspettavano papà e mamma. La loro espressione era desiderosa di vedere la tua reazione alla sorpresa.

In particolare quella mattina, arrivato in cucina, non trovai niente sul tavolo, solo una busta chiusa che custodiva un piccolo oggetto.
La delusione fu enorme: sentivo il magone che saliva sempre di più… e quando chiesi se ero stato cattivo, mi risposero che la Befana aveva lasciato solo quella busta, invitandomi ad aprirla.

La strappai quasi con rabbia e usci fuori una chiave…
’’Che cos’è questa…?”
“Una chiave…”
“E che ci devo fare con una chiave? Io volevo un gioco!”
“Ma lo sai a che servono le chiavi?”
“Servono ad aprire le porte…”
“Allora prova ad aprire una porta, potresti trovare qualcosa…”
Iniziai a controllare tutte le porte, ma avevano tutte la chiavi attaccate.
Tranne una: quella dello stanzone.

La aprii con la velocità della luce, entrai dentro e rimasi praticamente impietrito: di fronte a me c’era un plastico enorme di un’ intera città con tanto di binari, treni e capostazione. Il tutto realizzato nei minimi particolari.

Ricordo come fosse ieri che iniziai a piangere e corsi ad abbracciare papà e mamma con tutte le mie forze, ma la sensazione più forte fu quella della consapevolezza che quella meraviglia non l’aveva portata la Befana, ma l’aveva fatta mio padre.

Ne ero certo: in quell’oggetto c’era tutto il suo amore per me, quello che ha continuato a donarmi ogni giorno della sua vita. Lo stesso che ancora oggi mi manca da morire.

Immagine tratta dal web

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