DI GIOVANNI BOGANI
Sai, mamma, la settimana scorsa sono andato in Sicilia.
È stata una notte lunga, in treno, in una specie di piccola celletta, chiusa ermeticamente, con il corridoio – fuori – che sembrava il corridoio di una prigione, tutto lucente e metallico, illuminato come certi negozi di macelleria.
Sembrava di essere davvero in un carcere, o nel caveau di una banca, dove mettono le cassette di sicurezza.
E dentro una delle porte ermeticamente chiuse, c’ero io. A guardare i due bicchieri di carta chiusi nel cellophane, e le due bottiglie di acqua minerale regalate dalla ferrovia.
Dentro, traballava tutto, tremava tutto, e le luci al neon erano forti, come in un camerino, prima di uscire sul palcoscenico.
Per ore e ore, silenzio. E gli scossoni del treno, che attraversava terra su terra, tempo su tempo, terra su terra, tempo su tempo. E poi giù, nel fondo del traghetto, e salire su in coperta, che è già giorno, un giorno grigio, a guardare avvicinarsi la Sicilia.
Sono andato in Sicilia forse soltanto per una cosa.
Per lasciare un berrettino.
Un berrettino da baseball, in una casa. Per lasciare il berrettino che avevi lasciato a casa mia. Quando te ne sei andata, prendendo un Flixbus, verso Roma, e verso la tua vita.
Per la verità, hai lasciato anche una marea di biglietti, di frasi di poeti e frasi tue, le trovo dentro i libri quando meno me lo aspetto. C’è scritto che mi amerai per sempre, e che mi ami tantissimo.
C’era un festival di cinema, lì vicino.
Un piccolo festival amichevole, in una città che guarda il mare, e le isole sparse lì in mezzo, quelle isole in cui Nanni Moretti girò un film. Una città che sta su una punta,e in alto c’è un castello da dove sembra di poter dominare tutto il Mediterraneo.
Un giorno sono andato nel minuscolo paese dove sei nata, un paese che è lì vicino. Ho ricordato l’indirizzo, perché ti ho mandato tante cose, in quei mesi che – te lo sarai dimenticato – stavamo insieme.
Ho cercato quella porta, che dà sulla strada provinciale, ci passano le macchine e i camion. C’erano un paio di campanelli con il tuo nome, forse un piano e il piano superiore.
Ho suonato, non hanno risposto. Chissà se erano in casa, e hanno preferito non rispondere. Io ho preferito non rimpiangere. Tu hai preferito non rispettare, qualche mese fa.
Tutti abbiamo preferito non ritornare, non ritornare a un passato che forse, a tutti e due, era sembrato bello. Ho lasciato il tuo berrettino nella buca delle lettere, c’era abbastanza posto. Qualcuno lo avrà preso, e buttato via.
***
Qualcuno avrà buttato quel berrettino, senza rendersi conto che ero arrivato fin lì, a restituirle l’ultimo pezzo della nostra storia. Ho visto la sua casa, senza grazia, senza balconi, senza gerani, senza lei. Mi vergognavo di essere lì, esposto a ogni sguardo, a ogni curiosità, a ogni ostilità.
Per il resto di quei giorni, ho camminato, ho visto film. Ho visto un museo, a Messina, che aveva anche dei quadri bellissimi. Statue che non ti immagineresti, quanta bellezza gli uomini hanno carezzato, e scolpito, e disegnato, e dipinto, quanto sono andati nel profondo della bellezza, quanto hanno desiderato di lasciare qualcosa di bello.
Ho incontrato, al festival, un fotografo che aveva più o meno la mia età, una barba foltissima, e faceva fatica a parlare, fatica a camminare. Però mi raccontava la sua storia, mi diceva che da piccolo era stato tenuto giorni e giorni senza mangiare, soltanto con uno yogurt. O forse ho capito male io. Doveva essere successo qualcosa di terribile, però, quando era ragazzo. Qualcosa che gli aveva procurato dei danni.
E ho incontrato una ragazza sveglia, che parlava, parlava, parlava, che aveva qualche ruolo in quel festival, e girava dando ordini, smistando persone, con una cuffia, un microfono a collarino, qualche altra cosa portata a tracolla. Aveva studiato all’università, la stessa in cui hai studiato tu. Ti conosceva, e diceva che sei tanto buona, che non hai mai detto una parola cattiva su nessuno.
Ho preferito non pensare a quello che la ragazza aveva detto, e sono andato a guardare il mare. La promessa delle isole. Laggiù, lontano, profili rosa in mezzo al mare celestino. Era una domenica color pastello. La tua ombra, l’ombra dell’angelo azzurro, sempre più tenue.
La giornalista del sito cinéphile ha gli occhiali grandi, sembra che le cadano dal naso, e l’aria sempre sbadata. Ma è molto attenta a capire dove si mangia, e non perde mai gli appuntamenti. Potrebbe fare l’attrice in un film americano ambientato in un college, ama i film di Cronenberg e tutti i body horror, ama David Lynch e i film coreani più estremi. Sono abbastanza convinto che tutto il cinema che conosco e che amo non abbia alcun interesse per lei. Scrive testi per brevi post su Instagram fatti da mental coach, persone che ti vendono qualcosa. Lei scrive per loro i testi: i testi con cui i mental coach devono convincere a iscriversi persone che non sanno dove andare, che non sanno che strada prendere.
Immagine tratta dal web
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